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Ieri, 23 giugno, come tutti sanno, i cittadini inglesi, scozzesi, gallesi e nord irlandesi, attraverso il loro voto e la Brexit hanno deciso l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. 

E’ ormai da mesi che si dibatte riguardo ai pro e ai contro che l’eventuale Brexit potrebbe avere sui mercati e sulla politica, soprattutto su quella economica.

Quello che interessa a noi è, invece, un aspetto di cui non si è quasi sentito parlare fino ad ora, se non su alcune tra le maggiori testate che si occupano di musica: cosa accade all’industria musicale britannica ed europea, ora che la Gran Bretagna è uscita definitivamente dall’UE?

Il sito Pitchfork si è occupato approfonditamente di questo problema, e ciò che ne è emerso e qualcosa di molto interessante, a tratti preoccupante e per nulla scontato.

Analizziamo la situazione insieme:

Innanzitutto verranno a crearsi, ovvi problemi per gli artisti britannici conosciuti a livello internazionale; questi, infatti, vedranno limitata, e di molto, la loro libera circolazione a livello europeo. Saranno, infatti, reintrodotti il visto e il carnet, un documento necessario per movimentare le varie attrezzature oltre il confine e che costerebbe tra le 1000 e le 2000 sterline (1300-2600 euro). Se questi sono i motivi principali per cui molti artisti rinunciano ad un tour statunitense o asiatico, è presumibile che ci sarà un calo delle presenze degli artisti britannici anche negli Stati dell’UE.

A livello di etichette e della questione copyright, un sondaggio BPI riportato da Pitchfork afferma che il 68% dei proprietari di label in Gran Bretagna era favorevole alla permanenza nell’UE; questo perché la Brexit significherà un forte rallentamento del successo della musica britannica a livello europeo e la conseguente perdita di molti posti di lavoro, oltre al fatto che c’è la diffusa convinzione che sia importante rimanere coinvolti nella discussione riguardo alle nuove leggi europee in materia di copyright, Inoltre, sarebbe stato giocoforza più facile per la GB vincere le “battaglie” con i colossi della musica globale se fosse rimasta all’interno dell’Unione Europea.

Ultimo punto affrontato da Pitchfork è quello riguardante i fondi europei per l’arte: Amélie Snyers, manager di Village Underground, dice: “l’anno scorso abbiamo ricevuto circa 20.000 sterline da Liveurope per aiutare più di trenta artisti emergenti”. Per lei e per migliaia di realtà musicali britanniche attualmente sostenute dai fondi europei, con la Brexit potrebbero venire a crearsi diversi problemi di finanziamento.

Ma non finisce qua: ci sono anche problemi pratici. Molti artisti sono preoccupati del fatto che la Gran Bretagna ora possa “chiudersi a guscio” e perdere quel cosmopolitismo e quell’apertura al mondo che la contraddistinguono attualmente.

Negli ultimi giorni sui social si è assistito ad una sorta di campagna “pro-remain” da parte di diverse figure chiave della musica elettronica britannica e non: dal fondatore di Hotflush Records Scuba all’inglese Eats Everything, reduce da un set su un tipico double-decker che girava per le strade di Londra, da BicepBoiler Room (entrambi con rivisitazioni della bandiera europea a dodici stelle), dai famosissimi Disclosure a Matthew Herbert, passando per decine di altre personalità. Ma, guardando i dati definitivi del voto, la loro mobilitazione politica non è bastata ad evitare la Brexit.

Non ci resta che assistere alla questione da semplici spettatori, sperando che questa pagina fondamentale della nostra storia contemporanea, non porti lontano dalle nostre vite artisti che ci arricchiscono quotidianamente con le loro idee e la loro musica.

Alberto Zannato