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Il Time Warp: la Mecca del popolo techno, l’Eldorado dei Top Dj, l’Eden dei tecnici video/audio/luci, il paese dei balocchi della musica connessa alla tecnologia.

Ormai il TW è un evento storico. E’ dal 1994 che vive nel sud ovest della Germania, precisamente a Mannheim,  situata nel land del Baden-Württemberg (ma si sposta anche in altri luoghi del mondo). La location che si presta ad ospitare quasi 50 artisti e più di 15.000 persone è il Maimarkthalle, uno spazio di 10 mila metri quadri. (Tutti i dati che vi cito li ho prepotentementi trovati sul web, la mia immagine residua della location del Time Warp è una sorta di insieme di capannoni attrezzati a festone, il che non è niente male in effetti).

Sinceramente non ero molto predisposto ad affrontare un Festival, l’ennesimo della mia non più giovincella vita. Ormai sono più un soprammobile da Club, un’eremita che si piazza sopra una tranquilla mattonella del locale, meglio se in un angolo, ed instaura con la musica ed il dj un simpatico viaggio intergalattico.

Ho sfidato il mio freno inibitore verso il festival manomettendolo con qualche litro di birra IPA, così in un batter d’occhio mi sono ritrovato a Tiburtina con uno zainetto, poi rivelatosi inutile, Air Max nere ai piedi (non tolte per circa 3 giorni), tre pacchi di sigarette in tasca, un po’ di soldi liquidi per corrompere i tipi alle dogane, qualche ex alle calcagna, e la lineup segnata sul mio telefono degli artisti che avrei voluto sentire (Rodhad; Sterac; Villalobos; Dixon; Garnier; Hawtin).

Abbiamo viaggiato in pullman, io ed una manica di disadattati come me. Tante, tante ore di viaggio su di un sedile angusto, circondato da sconosciuti con la stessa empatia di Salvini con la felpa Tirana in mezzo ai leghisti del centro Veneto.

Facendomi due calcoli (non letteralmente) ho viaggiato per ben 60 ore, minuto più mezzo litro di birra meno. Venti ore sono state impiegate nel viaggio d’andata, circa 18 dal viaggio nei party del Festival, ed altre 20 ore (fortunatamente da dormiente) al ritorno in patria. Ma alla fine la vita è una sola, e la spreco come si deve.

Il pullman è una giungla, una trasferta di facinorosi più eccitati di Diprè durante le interviste a Sara Tommasi e più annichiliti di Sara Tommasi alle interviste da Diprè. Gli unici momenti di riposo in cui apprezzare un po’ di sano silenzio sono quei troppo brevi attimi al confine tra un paese ed un altro, esatto la dogana, in cui sgomento e smaltita per i controlli affrescano i visi degli agitatori in santissime ed immobili statue di cera.

Fortunatamente non accade nulla, nessuno avrebbe voluto saltare il time warp passando una notte al fresco durante gli accertamenti di routine, anche perché di fresco in Germania ne abbiam preso a sufficienza.

Finalmente si arriva a Mannheim, io entro senza dover fare la fila nella parte che accoglie le guest. Quasi emozionato per tale onore mi faccio perquisire in toto il mio nudo animo, ma la Polizei non ha voluto approfondire tale screening.

Sono le 21 e appena il tempo di farmi un giro per capire l’ambiente, già mi rendo conto che la mia sorta di lineup aveva bisogno di una modifica preliminare. Così, girando per le sale, ben 6 e tutte allestite scenograficamente alla grande (tranne la 5 che era la più sincera e spartana), il mio orecchio da veterano che predilige quella techno scura abbastanza berlinese, è stato felicemente soddisfatto da tale Seebase, paffuto uomo con barba grigia in sala 2. Gli segue un’ottima Monika Kruse, ma arrivate le 23 mi dirigo in sala 1 per sentire il mio affezionatissimo Rodhad. E qui ho notato che il rosso tatuato teutone è un essere più da club che da festival. La sua tecnica è sempre ammirevole, la sua scelta musicale idem, ma le sensazioni che mi ha trasmesso non sono state fedeli alle aspettative.

Finito il suo set di un’ora e mezza, avevo mezz’ora di buco da passare come meglio credevo prima di dirigermi in sala 5 per sentire Sterac, l’anima techno di Steve Rachmad. Così ho sondato un po’ la sala Chill Out. Un enorme spazio allestito con divanetti e moquette dove sfattonare in allegria, notare le bizzarrie che l’ambiente underground regalava e intimamente stimare la Germania per avermi saputo regalare, per l’ennesima volta, tanto rispetto ed educazione da un evento ad un passo dal borderline.

In un istante si siedono al mio fianco due francesi, gentilmente mi chiedono se potevano fumare una canna o la cosa mi avrebbe infastidito. Stupore, meraviglia, ammirazione. Li rassicuro e gli fornisco un filtro per farmi vedere collaborativo. In venti minuti abbiamo parlato di musica, di Parkett, del clubbing, dei dj, di tutto ciò che era coerente in quell’ambiente. I due mi erano simpatici, così li porto a sentire Sterac che loro non avevano mai sentito prima.

La sala 5, come dicevo prima, è la più spoglia di visual e giochi di luce, ma Steve ha saputo riempirla con tanta buona techno, coinvolgendo a pieno l’ascoltatore. I francesi si sono divertiti. Sono le 2 e 30 ed io scappo da Villalobos in sala 3, una delle più grandi.

Purtroppo la densità di persone in sala è altissima, fatico a farmi spazio e vivere appieno la musica che solo Ricardo sa fare. Così all’ennesimo passetto idiota che vedo al mio fianco(sapete quei passetti che oggi fanno tutti i bimbimonkia ma una volta era il simbolo della Chicago danzante, cosiddetto footwork) prendo e me ne vado nella sala 4 a sentire l’ultimo rimasuglio dei Tale of Us.

A quanto pare i due compatrioti hanno saputo scaldare il dancefloor. La folla è al top, addirittura le pareti trasudano emozioni, ogni tanto mi cade qualche goccia di terrificante acquosità nei capelli. Così vado nell’armadietto che con soli 5 euro (di cauzione, che poi mi sono stati restituiti) potevi prendere, dove avevo riposto il cappello ed il bomber. Indosso il cappello e rientro in sala 4 dove i Tale of Us, tra una miriade di laser, raccoglievano moltissimi applausi. Stava per succedergli Dixon.

La stanchezza ed il down incominciavano a farsi sentire e volevo raccogliere le forze per poi sentire Garnier e Hawtin, così mi sono appoggiato sulle barriere sotto lo stage. Beh Dixon è stato così prorompente e dalla scelta musicale così indovinata che non ho potuto fermarmi; l’ho fatto solo 15 secondi quando ho visto al mio fianco Richie Hawtin ballare come un ossesso, ma poi ho continuato a vedere quella testa impomatata di Dixon, tra i laser pilotati saggiamente dalla regia, inebriare di stile e di cultura musicale tutto il Time Warp. Per me il migliore di tutto il Festival.

Piccola tappa ai bagni, i quali venivano puliti regolarmente ogni tot tempo. Rientro in sala 5, quella spartana e più sincera, ed era ormai giorno. Sembrava essere in piramide al Cocoricò, l’atmosfera era di gran festa. Laurent Garnier si aggiudica meritatamente la medaglia d’argento e ci fa ballare sino alle 10 del mattino.

Stiamo per volgere al termine. Ecco finalmente arrivata l’ora di sentire l’ultimo dj sulla mia scaletta: il biondissimo e canadesissimo Richie Hawtin. Da un largo periodo sono sempre restio sul pronunciarmi su Hawtin. Sapete, pensar male di uno che ha plasmato una buona fetta di storia musicale è pericoloso. Uno che ho sempre stimato ed amato, innovativo, minimal, techno. La mia visita da lui è più una prova del nove, è più una sfida con le due parti di me stesso, quella che lo ameranno e lo stimeranno sempre, una che ormai è invece più critica nei suoi confronti,  che non apprezza più la sua musica.

Il dissidio è simile a quello provato quando vidi passare Baggio all’Inter dopo che il mio cuore milanista era stato razziato dalle sue magie calcistiche.

Hawtin ha suonato dalle 8 del mattino alle 14.30. In alcuni momenti è stato trascinante, rari momenti purtroppo, in molti è stato noioso. Ormai per me Richie è una macchina, non più emozioni, errori umani, niente di tutto ciò, solo una macchina che suona con le macchine.

Nell’insieme il Time Warp è quell’evento che da ragione sia a chi è restio ad andarci sia a chi è compiaciuto di tale evento. Gli impianti, le tecnologie al servizio della musica, i servizi stessi, sono inattaccabili. Le lineup accontentano un po’ chiunque. Sono tornato a casa con la mia parte di anima devota alla musica molto soddisfatta.

Vi allego la traccia che più mi ha lasciato il segno, è stata suonata da Dixon.

Pier Paolo Iafrate