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La storia a tappe dei manichini più famosi della musica elettronica, quelli che hanno “impersonato” i Kraftwerk dagli anni ’70 ad oggi.

I manichini dei Kraftwerk hanno accompagnato la loro carriera lungo tutto il cammino. C’è un bellissimo articolo di Giosuè Impellizzeri, uscito di recente sul suo blog Decadance, che traccia la storia di questi manichini e la loro evoluzione tecnica, dalle reazioni del pubblico alle implicazioni che questi hanno avuto sull’immagine dei Kraftwerk nell’industria musicale e mediatica. Abbiamo voluto farci raccontare proprio da Giosuè Impellizzeri in persona gli aspetti più particolari di questa vicenda, che alla fine riserverà anche una piacevole sorpresa.

Leggendo il tuo articolo-racconto sul tuo blog “Decadance” siamo stati piacevolmente colpiti da una storia particolare che riguarda i manichini dei Kraftwerk. Pare ci siano dei retroscena interessanti circa la loro evoluzione. Ti andrebbe innanzitutto di raccontarci in quale occasione iniziarono le prime apparizioni della prima versione resa pubblica di questi manichini?

I primi manichini vennero presentati alla stampa a Parigi nell’aprile del 1978, in occasione del lancio del settimo album, “The Man Machine”. A descrivere bene il loro aspetto è il giornalista David Buckley nel libro “Kraftwerk Publikation”, disponibile anche in lingua italiana e che consiglio caldamente di leggere. Prodotti da una società di Monaco, la Obermaier, quei pupazzi erano straordinariamente realistici poiché riproducevano le fattezze dei quattro musicisti ma nel contempo il realismo era intriso della freddezza di un corpo inanimato. L’effetto che ne scaturiva era più vicino a quello di salme imbalsamate che a quello di uomini-robot.

La prima apparizione pubblica invece risale a fine maggio dello stesso anno, sulla ZDF tedesca. In Italia arrivano qualche mese più tardi, prima alla Mostra Internazionale Di Musica Leggera a Venezia e poi a Domenica In, intervistati ironicamente da Corrado Mantoni in un video che gira online da qualche tempo. Tuttavia, come ho sottolineato nella mia indagine, i manichini irrompono nel mondo dei Kraftwerk già nel 1977: si guardi il video di “Showroom Dummies“, incluso in “Trans-Europe Express“. Però non si tratta degli stessi della Obermaier, ed è abbastanza facile intuirlo perché sono calvi e non mostrano alcuna somiglianza coi membri della band.

Credo che in quel periodo Hütter e Schneider (i due che avevano facoltà decisionale nel team di lavoro) stessero iniziando a ri-elaborare l’idea del binomio uomo-macchina, sino ad eleggerla concept del citato “The Man Machine”. Parlo di ri-elaborazione perché di “man-machine” si parlava già sui manifesti della tournée americana che i Kraftwerk tennero nel 1975.

Qual era presumibilmente il messaggio dietro all’uso dei manichini per il quartetto tedesco?

Esistono almeno un paio di interpretazioni. La più comune ed ovvia richiama le inclinazioni robotiche dei loro album più noti. I “musik arbeiter” cercarono (e trovarono) degli alter ego per rappresentare visivamente la propria musica. Sebbene operassero a pieno regime negli ambienti pop, i Kraftwerk rifiutarono di essere annessi allo stereotipo delle pop/rock band.

Secondo i ricordi di Wolfgang Flür, pare fu Schneider a sostenere per primo l’allontanamento dal look con barba incolta, capelli lunghi e blue jeans a zampa, caratteristiche che si ritrovano nel pre-Kraftwerk di matrice krautrock, gli Organisation. Inoltre i tedeschi suonavano strumenti che bisognava trattare con cura, sul palco non c’erano tamburi su cui picchiare con forza o chitarre da distruggere dopo l’esibizione, ma tutt’altro, ed anche i temi delle loro “canzoni” non erano certamente i soliti. In questa prospettiva i manichini incarnarono la realtà kraftwerkiana a tutto tondo. Una seconda interpretazione, connessa comunque alla prima, rimanda ad una sorta di satira nei confronti della produzione di massa degli anni Settanta.

Il sopraccitato Flür, nel suo libro, sostiene che lui e i suoi colleghi intendessero dimostrare l’esistenza di una musica pop(olare) moderna indipendente dal punto di vista stilistico, una tendenza musicale intellettuale che potesse combinare temi moderni, tecnica e scienza. I Kraftwerk evitarono di proposito la formula del pop/rock ma riuscendo a non sacrificare il successo commerciale.

Insomma, pur vivendo nel pop non lo rappresentarono mai in senso stretto. I manichini, in sostanza, furono un addendum per affrancarsi visivamente dalla massa. Evidentemente Hütter & co. intuirono che la musica poteva non essere sufficiente per persuadere il pubblico. Non furono i soli però, visto che a fine anni Settanta si registra la comparsa di diversi artisti che provano a cibare le proprie propensioni futuristiche con accorgimenti scenici che vanno dai costumi alle maschere, come avviene per Mandré, Space, Ganymed, Grand Prix, i nazionalpopolari Rockets e i nostri I Signori Della Galassia.

Come reagirono tutti all’impatto con quegli inquietanti surrogati umani, dal pubblico alla stampa?

A quanto riportano varie fonti bibliografiche, le reazioni del pubblico furono prevalentemente positive, miste tra stupore e timore. Meno entusiastiche invece quelle della stampa che incontrò per prima i quattro manichini: i giornalisti avrebbero voluto intervistare uomini in carne ed ossa ma si ritrovarono di fronte a quattro maxi “bambole” che assomigliavano ai musicisti, e prevedibilmente non esultarono.

Abbiamo inoltre appreso, sempre dal tuo articolo, che verso la metà degli anni ’80, con l’occasione di “Music Non Stop” i manichini furono oggetto di una innovativa trovata che diede loro un risalto ancora maggiore grazie alla sapienza di Rebecca Allen. Cosa successe in quel frangente?

Nel 1984 i manichini della Obermaier ormai avevano sei anni e il loro potenziale andava esaurendosi. Bisognava trovare un’alternativa, valida ed altrettanto incisiva. La cineasta americana suggerì di sostituirli con quattro androidi virtuali, che presero forma nel video di “Musique Non Stop” e che contrassegnarono l’artwork dell’album “Electric Cafe” del 1986, probabilmente il più criticato della carriera dei tedeschi. I manichini si erano trasformati in avatar, in proiezioni digitali di umani. La robotizzazione lasciava spazio alla virtualizzazione.

Ma la parte che come accennavamo in apertura è stata la più interessante, almeno per noi, riguarda ciò che avvenne a partire dagli anni ’90. Chi entrò in gioco a questo punto, e cosa portò di nuovo nelle “vite” di questi manichini?

I Kraftwerk attraversavano un fase particolare della loro carriera. Non si esibivano live da quasi dieci anni, la loro formazione registrò un paio di defezioni ed anche musicalmente sembrava non avessero più molto da dire, almeno in termini di premonizioni future. Discograficamente erano fermi ad “Electric Cafe” e all’orizzonte non si scorgeva nulla di autenticamente nuovo. “The Mix” del 1991 infatti fu un’alternativa (più creativa) alla canonica greatest hit, giacché si fondava su reinterpretazioni di pezzi già noti ottenute con la moderna tecnologia digitale, allora assai meno demonizzata rispetto ad oggi.

Forse per la prima volta i Kraftwerk anziché guardare avanti si giravano indietro, e questo vale anche per i manichini. Abbandonano gli avatar computerizzati della Allen e tirano fuori dagli armadi i manichini che senza ombra di dubbio gli portarono più fortuna. Però, così come avvenne coi pezzi di “The Mix”, anche i pupazzi andavano aggiornati ad un livello tecnologico superiore e ciò fu reso possibile da due italiani. Giovanni Marinosci e Fabio Bovero, che già avevano approntato con altri fini dei manichini robotizzati, realizzarono (in Italia!) nuovi androidi che, a differenza di quelli prodotti dalla Obermaier circa dodici anni prima, potevano muoversi ed essere pilotati a distanza. La meccanizzazione torna a palpitare nei Kraftwerk e lascia un segno ancor più tangibile, visto che quei robot sono utilizzati ancora oggi per i loro show.

Ti andrebbe di raccontarci come sei venuto a conoscenza di questa vicenda sconosciuta al grande pubblico?

Tutto inizia su Facebook alla fine della scorsa primavera quando un amico, il DJ Biagio Lana, mi ha coinvolto in una discussione sui manichini dei Kraftwerk. C’era anche Marinosci che raccontava, per sommi capi, la vicenda e decisi subito di approfondire. Da lì iniziai una lunga, minuziosa e laboriosa indagine durata oltre due mesi. Naturalmente mi sono avvalso anche dei contributi inediti ed esclusivi dei diretti interessati, Giovanni Marinosci e Fabio Bovero, con cui sono entrato in contatto grazie al citato Lana e che ho intervistato risvegliando ricordi ormai sedimentati sul fondo della memoria.

Più che essere sconosciuta al grande pubblico direi che la vicenda è sconosciuta a tutti, anche ai fan più accaniti. Gli stessi Marinosci e Bovero mi hanno confermato di non aver mai raccontato a nessun giornalista la storia o di aver diffuso materiale fotografico in merito prima di averlo condiviso con me.

Dal canto loro, neanche i Kraftwerk hanno mai pensato di rivelare i retroscena dei manichini che portano ancora sul palco. Insomma, tutto lascia supporre che io sia stato il primo al mondo a svelare la paternità di quei robot, e questo mi inorgoglisce particolarmente. Spero dunque che se in futuro altri (che siano redattori italiani, stranieri o risorse open content come Wikipedia) vorranno utilizzare il mio lavoro siano leali riconoscendomene la paternità, così come ho fatto io con chi, direttamente o indirettamente, ha contribuito al mio lungo lavoro di ricerca.

Ad animare il progetto Decadance nato nel 2001 è una viscerale attività archivistica che indaga su dischi, personaggi e tematiche di vario genere, con la missione di raccogliere e svelare informazioni che non sono ancora presenti su libri e sul web. È questo il tipo di giornalismo in cui mi trovo più a mio agio e che voglio portare avanti.

Trovo desolante che molte penne italiane impegnino il proprio tempo nell’alimentare esclusivamente approfondimenti (o pseudo tali) realizzati all’estero, limitandosi a traduzioni e continue scopiazzature. Ancor più irritante poi quando ciò riguarda argomenti o personaggi legati al nostro Paese. Dovremmo tutelare e salvaguardare la nostra storia e non lasciarla raccontare agli altri secondo prospettive diverse o talvolta volutamente alterate e revisionate. Sarò sempre pronto quindi a narrare peripezie ed epopee di nostri connazionali (ma non solo) soprattutto quando scarsamente considerati dalle bibliografie più blasonate, proprio come avvenuto coi manichini robotizzati dei Kraftwerk.

Paolo Castelluccio