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È apparsa in questi giorni sul sito change.org una petizione per combattere e definitivamente eliminare la tech-house. La raccolta firme è stata lanciata da un utente che si firma Jeremy Cocks e sarà consegnata direttamente alle Nazioni Unite.

La proposta provocatoria di eliminare la tech-house è apparsa qualche giorno fa e, con il passare delle ore, sta raccogliendo centinaia di consensi. Abbiamo deciso di raccontarvelo perché dietro a questa singolare petizione si cela qualcosa che potrebbe portare ad una riflessione tutt’altro che banale. Non vogliamo assolutamente fare i paladini dell’underground, quelli che sputano sul piatto dove mangiano o che vogliono far passare come démodé tutto quello che è mainstream. Non vogliamo nemmeno che la tech-house sia bannata dalla faccia della Terra.
Quello su cui vogliamo riflettere parte dal malcontento che si sta creando attorno ad un genere che molto spesso fa discutere appassionati e addetti ai lavori.

Una premessa che dobbiamo fare prima di iniziare il nostro ragionamento, parte dal presupposto che ognuno è libero di ascoltare quello che preferisce, ci mancherebbe, sopratutto in un’epoca come quella di oggi dove internet, siti dedicati, club e festival permettono di poter documentarsi e scegliere quello che più ci piace ascoltare. È un dato di fatto però che l’industrializzazione della musica elettronica, ed il forte marketing che gira intorno alla scena tech-house fatta di agenzie, festival, cachet stellari ed eventi fortemente pubblicizzati, abbiano preso una direzione che a molti appassionati ha iniziato a non piacere. Prima di tutto, il genere ed i parties a cui si associa stanno diventando un fenomeno di massa, allontanandosi da quella base di ricercatezza ed esclusività che forse li caratterizzava decenni or sono.
Questo ovviamente è normale se analizzato in chiave domanda-offerta: un prodotto che ha un forte seguito è più che giusto che abbia una grande offerta. Quello che però non piace è l’effetto che sta avendo la commercializzazione e la vendita su larga scala di questo tipo di eventi.

Si stanno moltiplicando infatti sul web le produzioni, tracce che molto spesso appaiono piatte e standard, uguali e ripetitive, che seguono una formula prestabilita per un’esecuzione filter-flanger-loop e ripartenza con kick o drop a pieno volume. Sempre più frequentemente ci troviamo davanti a prestazioni standardizzate, dj set uguali che sembrano non cambiare mai, senz’anima. Inoltre, gli elementi decorativi che iniziano ad essere al centro dell’attenzione, molte volte fanno passare la musica in secondo piano: non è più protagonista la selezione e l’esecuzione che il dj propone, sono più importanti le piscine, i selfie nei boat party, i coriandoli o il merchandising con stampato il brand dell’evento. Un DJ quindi vale l’altro (purché riempia i locali), una traccia vale l’altra, la cosa più importante è creare un prodotto facilmente vendibile su larga scala che assicuri ingressi facili con il minimo sforzo. Ma non sempre le altissime presenze e l’elevato costo del biglietto sono sinonimo di qualità, anzi: tutto può andare a discapito della musica, per un genere che ormai di innovativo ha un qualche lontano elemento nel suo albero genealogico, o una qualche produzione del DJ “superstar” di turno uscita più di dieci anni prima.

Il mondo della musica ha comunque sempre seguito delle mode, basti pensare alla minimal di metà anni 2000, la techno berghainiana dei giorni nostri, il total black o il ritorno del funk e dell’house old-school. Quello che però ci fa riflettere su questo fenomeno ruota attorno al come si sia imposto lo stampo ibizenco su tutto, come non tramontando mai riesca ad essere protagonista sempre ed ovunque. I soliti noti, ormai da un decennio, monopolizzano festival ed eventi. Finché la cosa continua a funzionare non possiamo assolutamente dargli torto. Non ce n’è motivo. Quello che invece ci porta a ragionare, in particolare quando compaiono petizioni di questo tipo, è la scarsa qualità che via via sta invadendo questo mondo. C’è sicuramente chi fa ancora bene il proprio mestiere, riempendo i club e facendo divertire la gente, ma ci sono molti DJ che, dopo essersi fatti un nome nel passato, continuano a cavalcare l’onda proponendo dj-set con scarsa personalità, dando alla gente quello che si aspetta senza rischiare e proporre qualcosa di nuovo. Di fronte a questo tipo di approcci è doveroso ricordare come la musica elettronica provenga dalla sperimentazione, dall’osare sempre di più, dall’esplorazione di strumenti e sonorità nuove.

La musica elettronica ha avuto sempre un forte impatto sul panorama musicale globale, ed è spesso stata oggetto di discussione perché creatrice di punti di rottura con la società, di tendenze nuove e all’avanguardia, di territori liberi svuotati da pregiudizi e bigottismi. Ci dispiace vedere come la pura compravendita di un prodotto o di un brand legato all’ambiente possa allontanarsi dalla spinta culturale che lo ha creato. Alcuni dj nati come cultori dell’underground, negli anni, si sono trasformati in fenomeni di massa, cambiando la propria musica a tal punto da essere irriconoscibili. Non possiamo giudicare le scelte, sopratutto quando il successo porta alla stabilità economica. Scegliere però di farlo a discapito del lato artistico non può che essere alla lunga controproducente. I generi cambiano e la musica si evolve, nessuno deve rimanere fermo sul gradino dal quale inizia la propria scala di ascesa, quello che però potrebbe apparire come un esplorazione, un’evoluzione della propria carriera, a volte nasconde solamente la mancanza di nuovi stimoli e nuove idee, oppure semplicemente un puro interesse economico. Il mondo della tech-house, e tutto quello che comprende, inizia ad essere poco genuino con il passare degli anni.

Con questo non vogliamo criticare né biasimare le scelte che fanno i promoter, i dj e, di conseguenza, gli appassionati, ogni volta che i locali vengono riempiti. Vogliamo solamente cercare di capire il perché della provocazione lanciata da Cocks. La spettacolarizzazione che va a discapito della musica non ci piace, sopratutto perché la musica è cultura; mercificarla non fa che togliere nobiltà ad un’arte per la quale tutti noi, ogni volta che ne abbiamo l’occasione, andiamo in un club o in un festival a ballare per ore, ad ascoltare la proposta di un artista che seguiamo. Senza ipocrisia, e senza voler andare in controtendenza a priori, senza iniziare battaglie insensate come quella analogico contro digitale, dell’underground contro l’EDM, cerchiamo di dire le cose come stanno. Ognuno poi è libero di fare le proprie scelte, compreso quella di lanciare una petizione provocatoria, o di prenotare anche quest’anno le vacanze ad Ibiza.
La musica però deve rimanere la protagonista assoluta, sempre.

Alessandro Carniel