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E’ una storia che fa arrabbiare e fa perdere per un attimo fiducia nel futuro, come ogni storia dove azioni del tutto innocue vengono considerate pericolose da chi governa. Governo che reagisce non solo fuori dai confini del buon senso, non solo fuori dai confini della giustizia, ma fuori anche dai confini (e di molto) della misura e della proporzione.

In questo caso c’entra relativamente poco la religione, dato che anche noi occidentali abbiamo in casa ottimi (nel senso di pessimi) esempi di sadismo governativo e crassa ottusità. Ascriveremmo certe crudeltà più a un ritorno generale di un’arretratezza culturale intenzionale e diffusa, piuttosto che alla religione in sè, quest’ultima utilizzata da millenni più che altro come efficace pretesto per legittimare la paura che un regime vuole imporre.

Siamo in Iran, paese con una storia molto densa, culturalmente ricchissimo, colto più di altri in medio-oriente, capace di rivoluzioni dal basso, e più o meno silenziosamente orgoglioso delle sue radici pre-islamiche. Dopo l’abisso Ahmadinejad, oggi siamo sotto il più morbido governo di Hassan Rohani (più morbido più o meno come il granito è più morbido del diamante). Nonostante ciò, certe manifestazioni culturali come la musica elettronica rimangono decisamente malviste dalle autorità, in quanto considerate come emulazioni dello stile di vita americano e occidentale che potrebbero intaccare i valori della comunità islamica iraniana. Per cui i più giovani, abituati a un cosmopolitismo per lo meno virtuale, grazie ai social network e non solo, sono costretti a vivere segretamente certe vibrazioni. Coscienti del fatto che rischiano grosso qualora venissero sorpresi ad una festa a base di musica elettronica, o a diffondere tale sottocultura.

E purtroppo è proprio ciò che è successo a tre ragazzi iraniani: Mehdi Rajabian, Hossein Rajabian e Yousef Emadi, due fratelli e un amico. La loro colpa sarebbe stata quella di aver diffuso in rete musica underground in Iran tramite la piattaforma Barg Music, già attenzionata dalle autorità iraniane per essere ritenuta ricettacolo di materiali offensivi per il credo islamico. Ed è proprio ciò che sarebbe stato ravvisato in questo caso: musica contenente messaggi contrari ai valori islamici e per questo potenzialmente pericolosi in quanto “insulterebbero ciò che è sacro per l’Islam”, “farebbero propaganda anti-sistema” e più in generale costituirebbero “attività audio-visive illegali”.

La corte ha impiegato non più di tre minuti a pronunciare una sentenza che definire sproporzionata è poco: sei anni di carcere (poi ridotti a tre per buona condotta) e un’ammenda pari a 6500 dollari americani. Follia pura. Secondo quanto riporta Pulseradio.net, i tre sarebbero anche stati vittima di pratiche che valicherebbero il rispetto dei diritti umani, come confessioni forzate, isolamento, pestaggi e inflizione di scosse elettriche. Al punto che a Mehdi, il proprietario del sito, dopo questa esperienza sarebbe stata diagnosticata una forma di distrofia muscolare che tratta con punture quotidiane e altre cure. Si dice addirittura che il giorno in cui sono stati liberati, come se non bastasse, siano stati nuovamente incarcerati.

A trent’anni dalla celeberrima e divertente hit dei Beastie Boys, è proprio il caso di ribadire “You’ve got to fight for your right to party”, ma stavolta siamo meno sorridenti. Il minimo che possiamo fare è lodare il coraggio di questi tre ragazzi, trattati alla stregua di terroristi.

Sulla stessa scia di questi deprimenti avvenimenti, consigliamo anche il film-documentario Raving Iran di Susanne Regina Meures, che parla della storia di due DJ della scena techno iraniana che sfidano il pericolo e la loro stessa paura per amore della musica.

Paolo Castelluccio