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La 20esima edizione del Monegros ha lasciato un lungo strascico di polemiche: tantissimi clubbers insoddisfatti, critiche di ogni tipo. Noi abbiamo voluto vederci più a fondo e cercare di capire cosa è davvero accaduto durante questo suggestivo festival. Abbiamo sentito la voce di chi è stato li e, con molta accuratezza, ci ha trasmesso il suo racconto. Vi lasciamo alla lettura.

“Ore 13.30, Plaza Catalunya, Barça. Il caldo afoso e umido ti fa sudare tanto che pensi che neanche alla fine della maratona di 24 ore sarai così zuppo. Ed è soltanto l’inizio. Se vai al Monegros si capisce. Il piazzale davanti all’Hard Rock Cafè è invaso a individui insoliti che i turisti in cerca della maglietta “Hard Rock Cafè Barcellona” guardano un po’ confusi. Cosa sono questi zainetti in spalla colorati, tutti questi occhiali da sole colorati, i sorrisi, e questo fomento dilagante? Verso le 14.30 riusciamo a imbarcarci in un pullman, ultima fila da casinari stile ‘gita del liceo‘. La compagnia è buona, l’atmosfera si fa elettrizzante. Si parte. “Ma che è ‘sta roba, metti la techno”, “Uagliò, cambia musica” , “Autista spegni la radio!”, le imprecazioni della gente in vari dialetti nei confronti di un dubbio CD di Lady Gaga che gracchia qualcosa dagli altoparlanti delle radio di ogni sedile. Kids want techno. E la techno arriverà.

Non è male il panorama intorno a Fraga. Si tratta di un’immensa distesa di arbustelli e sterrato il cui giallo desertico è interrotto solo dalle due strisce di autostrada che risaltano in quella vista desolata, ma affascinante. Un bel posto per un rave. Lo sconfinato nulla in cui ti trovi ti fa capire che sei lì solo ed esclusivamnte per fare festa, e ti fa apprezzare il fatto che anche il peggiore e inospitale buco di culo di questo pianeta può essere casa tua, se le persone intorno a te la pensano allo stesso modo. La camminata dal pullman all’entrata è un crescendo di emozioni. Da lì alle prossime 24 ore sei lì per divertirti, non conta nient’altro. Il “boom-clap” che senti in lontananza ogni volta che ti avvicini a un locale ti fa accelerare il passo e il battito del cuore, e con te a tutti gli altri. La camminata si trasforma in una corsetta sorridente, ‘sti cazzi del sudore, sti cazzi del fiato’.

Arriviamo davanti a dei tendoni dove dei tizi ti perquisiscono tasche, pacchetti di sigarette, di tabacco, di gomme da masticare. Se hai la sfortuna di avere una faccia che non gli piace, o la personalità di portare col sorriso piercing, orecchini, tatuaggi e altre cose da “giovinastri” ti portano uno stanzino dove il personale adibito ti perquisisce a fondo. Sorvoliamo.

I pochi arrivati già fanno festa. Ci si aggira a dare un occhiata alle varie strutture, un po’ per orientarsi, un po’ per vedere cosa succede in giro. Tutti sembrano gentili ed amichevoli, le vibrazioni sono già positive ed entusiasmanti. Si fa amicizia, si balla insieme, “Where are you from mate?” chiedo a tutti i non-italiani con cui mi ritrovo a parlare. Francesi, svedesi, tedeschi, irlandesi, e via dicendo, mancano veramente pochi paesi all’appello. Spagnoli e italiani, fanno da padroni di casa, e sembrano rappresentare la maggioranza (quand’è che non è così se si tratta di feste?)!.

Appena entrati, sulla sinistra, si erge il Main Stage, già alle 17:30 assiepato di gente a ballare. Visivamente imponente, sonoramente un po’ meno. L’apertura del Main Stage è affidata ad Aitor Ronda b2b Andres Campo, i quali alzano il livello delle vibrazioni in attesa dell’apertura di Carl Cox. Una cosa che appare subito chiara è che qualcosa non va nel sound del Main. Il suono sembra leggermente sgranato, le casse non sembrano adempiere completamente al loro dovere.

All’attacco di Carl Cox per le 19 il Main si riempie. Un buon set dal punto di vista della selezione, ma Carletto mio, dopo tutti questi anni non puoi permetteri di steccare di mezza battuta neanche un solo attacco, così come hai fatto. Sarà stato quel mitomane di Steve Aoki che, salito sul palco si faceva i selfie con te di dietro ad innervosirti forse, se così fosse ti avrei perdonato se lo avessi steso con un destro e gettato nella folla, che credo avrebbe eliminato volentieri dalla Line-Up (e dalla faccia della terra, perchè no?) tale individuo. Line-Up che quest’anno è palesemente più spoglia di elementi di qualità musicale oggettiva, mancano all’appello tanti nomi di artisti presenti gli anni passati, che quest’anno non compaiono.

Già da qualche mese infatti le polemiche sul web impazzano. Non c’è bisogno di conoscere a fondo lo spagnolo per rendersi conto sulla pagina facebook del Monegros che il malcontento è generale. Che ci fa Skrillex tra gli Headliners dell’evento? E i “Dogblood” (Skrillex b2b Boys Noize) proprio qua dovevate decidere di farli esordire per la prima volta? Kids want more techno. Purtroppo, questa, dovremo prendercela da soli.

 Non resta quindi, per gli appassionati di techno, armarsi di Time Table e mappa dell’evento, e costruirsi una scaletta quanto il più possibile precisa sugli artisti interessanti da seguire. Il tramonto lo spendiamo all’Elrow Show Stage, colonna sonora Jamie Jones. Ottimo il set di quest’ultimo, grazie anche allo stage che sonoramente prometteva di più, con due grappoloni di casse FUNKTION-ONE, per un totale di 30.000 KW, che non lascia delusi. Se avete lo stomaco e le orecchie deboli, meglio allontanarsi dal sotto cassa. Decisamente positiva la mia impressione su questo stage, che qualche ora dopo verrà bombardato a tappeto prima da Loco Dice (che poteva comunque fare di più), sia da Paco Osuna (che ha messo in piedi uno dei set più potenti del Festival), che dai ragazzi dell’Elrow vero e proprio, i quali prenderanno il controllo dello stage dalle 6 di mattina, fino a chiusura.

Ottima la prestazione di Mistress Barbara che ha fatto saltare il Barcardi Stage con una selezione musicale ad alta velocità e bpm. Alle 6:30 nonostante il sole stia sorgendo sul deserto, e il cielo si tinge di un rosato potente che macchia le nuvole azzurrine all’orizzonte, non ci si può fermare. Joseph Capriati al Main Stage. Non deluderà, come sempre. Continua a martellarci Chris Liebing, che sento solo dal capannone adibito ad area chill-out, i miei amici mi riferiscono che anche The Hammer non ha deluso.

Essendo la mia prima esperienza al Monegros Desert Festival, per fare un termine di paragone con le passate edizioni, non mi resta che parlare con la gente. Mi capita più di una volta, durante il corso del Festival, di sentire lamentele dai “veterani“, delusi in particolar modo, oltre che dalla Line-Up (da cui sono rimasto, in fin dei conti, deluso anche io per ciò che poteva potenzialmente essere), anche dalla portata del festival. “Io non posso perdermi il Monegros, ma gli altri anni c’erano 5 stage, quest’anno 3, renditi conto“. Questa la sostanza che emerge dalle opinioni di tutti. Il momento in cui inizia a roderti anche a te con gli organizzatori è quando realizzi che, oltre all’entrata avevi diritto a una birra, e a un regalo. Inizi a chiedere e “puff“, spariti nel nulla. Nessuno ne sa niente, sull’argomento è l’omertà generale. Nè gli steward all’entrata, nè al cambio dei soldi, nè al Merchandising stesso, dove uno si aspetta almeno un adesivo del cazzo da attaccarsi in camera una volta tornato. Te ne vai in giro con il biglietto mezzo stropicciato e insabbiato, a sventolare la parte “entrada + 1 regalo” a tutti, ma nessuno sa dirti nulla. Mah.

Quello che volevo esprimere scrivendo questo articolo era un punto di vista oggettivo, dato dal fatto che la mia era la prima esperienza al Monegros, e che sarei riuscito dunque ad evitare la trappola dei nostalgici disfattismi. Vanno però affrontati, chiaramente, alcuni discorsi che potrebbero non piacere a chi in questa edizione ha trovato la perfezione, o quantomeno nulla da criticare. Il Monegros Desert Festival nasce nel 1994, lo stesso anno del Time Warp di Mannheim (non a caso), lo stesso decennio della cultura raver e dei free-party. Il sottile filo della storia che ci unisce con il passato, all’inizio di questa seconda decade di Monegros, sembra farsi ancora più sottile. Sarà che noi nati nei ’90 ci ritroviamo a fare i conti con i grandi numeri e le masse, con la concezione del mainstream, degli Showman alla Steve Aoki, che spalano solo merda su una vera e propria arte come il djing e la musica elettronica, rendendo accettabile e anche auspicabile l’idea che ‘tutto va bene, basta che c’è apparenza’.

Questa sembra essere la strada intrapresa dagli organizzatori del Desert Festival. Non svoglio dire che l’esperienza di per sè non sia stata a prescindere emozionante e positiva. Ritrovarsi uniti con i tuoi amici a ballare nel mezzo dei polveroni di sabbia desertica, con il sole che cala all’orizzonte, o la mezzaluna che illumina timidamente il cielo sopra lo sconfinato nulla che scorgi affacciandoti alle recinzioni della struttura, trasmettono qualcosa di quasi mistico e ancestrale, che neanche la presenza di nomi (che non voglio neanche più ripetere) fuoriluogo e organizzazione fallace  possono rovinare. Stiamo dunque assistendo, con l’avvento di questa seconda decade, a una nuova epoca di MDF, improntata a esperienze più di massa come Tomorrowland o Ultra Music Festival, o vedremo le cose tornare a una diversa concezione di Festival? Ai posteri l’ardua sentenza.”

Grazie a Gabriele Bassi per la sua testimonianza.