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Sono passati decenni da quando la musica elettronica è salita in sella al destriero che le ha permesso di gareggiare – armi alla pari – con la musica suonata in generale, e di sorpassarla anche, a tratti. Il traguardo ovviamente è lontano e non avrebbe senso speculare sul futuro vincitore (ammesso che ce ne sarà mai uno). Decenni – dicevamo – di sotterranei inzuppati di sudore, decenni di droghe, decenni di musica in evoluzione, finché è arrivato l’oggi con le sue naturali problematiche.

Ci chiediamo allora se sia possibile dire qualcosa di sensato sulla contemporaneità della nostra club culture, sulla musica elettronica e rispondiamo di sì, pensando che la cosa più importante da fare sia polemizzare (cercando di chiarire) sulla modalità di ricezione dell’utente (il clubber), cioè su come egli rivesta (incarni) il suo specifico ruolo, cioè: in che maniera ci comportiamo da gente che va a ballare? Da pachidermi, e ora vi spieghiamo perché. E per farlo dobbiamo mettere a confronto due paradigmi fruitivi.

Il modo in cui andiamo ad ascoltare un gruppo rock non è cambiato di una virgola negli anni. Compriamo il biglietto e, se non si tratta della nostra band preferita, ci ascoltiamo a brani la discografia per farci un abbozzo di cultura preventiva, anche perché abbiamo sentito dire che ri-ascoltare dal vivo dei pezzi che il nostro cervello ha già avuto modo di elaborare, rende l’ascolto più maturo e maggiormente godibile. Il giorno del concerto, ci rechiamo nel locale/palazzetto/stadio e, dopo eventuali file e […], ci spariamo l’esibizione: in piedi, focus audio-visivo indirizzato su chi sta sul palco, testa che saltuariamente tentenna e corpo che ciondola a ritmo e – se siamo particolarmente socievoli – struscia contro i vicini: emozioni, vibrazioni, calore, atmosfera.

Parliamo naturalmente in linea teorica e, quindi, dovutamente generalista, utilizzando la parola ‘concerto‘ come se fosse una parola-ombrello-mondo, il che vuol dire che la usiamo a caso, intendendo cioè alla buona tutte le tipologie di concerti, che siano pop, rock, gospel, e metal (anche se in questi ultimi sono previste, in aggiunta, teste rotanti e spruzzate di sangue). Ad ogni modo: si tratta di una fruizione statisticamente “standard”, che ci va di definire “poli-sensoriale”: vista e udito si predispongono a ricevere segnali provenienti unidirezionalmente da uno spazio fisico ben delimitato, ecco.

L’impianto audio è posizionato a lato del palco e i suoni che amplifica sono generati da uno o più tizi che si trovano sul palco stesso (tralasciando alcuni pazzoidi di cui non faremo nomi – Yannis per esempio – che passano metà del tempo a fare stage diving, oppure quelli che lo passano a firmare autografi abdicando il microfono – Lana del Rey, ok?): è proprio bello e soddisfacente, infatti, stare a guardare alternatamente il chitarrista, il cantante, il bassista, il batterista, il tastierista, le coriste, e ascoltarne – simultaneamente – la performance che producono dal vivo (glissiamo più per disprezzo che per comodità sui playbackers), in quello stesso momento in cui noi li guardiamo: sì, è proprio bello, e perché no, formativo.

Il problema, però, è che ci siamo macchiati di una colpa inalienabile: abbiamo trapiantato questo paradigma fruitivo all’interno dei club, in cui a tuonare è una musica diametralmente differente, il che, a rigor di logica, dovrebbe esigere un comportamento anch’esso diametralmente differente. Ma, l’atteggiamento che avevamo/abbiamo di fronte a una live band, non è mutato di un millimetro rispetto a quello che abbiamo ora, adesso, in questo momento in cui scriviamo – dentro al club – nei confronti del dj. E – anche qui ci pare corretto precisarlo a costo di risultare pedanti e poco credibili – con “club” non ci riferiamo solo a quei posti giganteschi che assorbono i soldi di centinaia e centinaia di persone imbambolate dal nome della super “guest da grido”, ma vogliamo indicare anche tutti quei luoghi molto più genuini, da un punto di vista di selezione artistica, e molto più piccoli, da un punto di vista capacitivo, che “dovrebbero” accogliere situazioni più modernizzate. In ogni caso parlo di club in cui nel bene o nel male rimbomba musica techno – perché sono quelli che ho esperito più intensamente – e nemmeno di striscio di quei posti obsoleti che ospitano EDM.

Di nuovo: speriamo che questo nostro sottacere sia interpretato per quello che realmente è: uno schifo incondizionato e consapevole verso una realtà che non riconosciamo come reale, in quanto troppo oltranzista nei confronti degli abusi che permettiamo al “reale” di infliggerci già quotidianamente. Tornando a noi: mentre il dj in questione cerca – mettendocela tutta con i mezzi che gli competono – di farci ballare, di farci limonare, di farci guardare negli occhi l’un l’altro, noi non facciamo invece altro che fissare lui – l’eroe, il sacerdote – che fotografare lui: lasciando del tutto perdere la sua musica (e la danza sfrenata che dovrebbe esserne legittimo corollario): impalati ad aspettare una sua qualche mossa mistica che ci redima dal nostro torpore esistenziale, abbagliandolo instancabilmente con un esercito di schermi lcd. È normale che poi si incazzi come ha fatto qualche tempo Jackmaster.

Naturalmente la transustanziazione dei corpi (o magie affini) non avviene: il dj, finito il suo lavoro (far suonare i dischi in amalgamata successione), sparisce come è arrivato, e noi ce ne andiamo stanchi e a mani vuote. Eppure il passaggio evolutivo epocale c’è stato (nell’iperuranio della teoria): si è passati da una fruizione poli-sensoriale ad una fruizione (che va a me di chiamare) “monosensoriale”, secondo la quale a contare dovrebbero essere soltanto le orecchie. Perché gli occhi dovrebbero simultaneamente occuparsi di non versare il cocktail e di trovare gli occhi dell’“altro”: perché in un club è bello perdersi di vista per poi ritrovarsi, cercarsi e perdersi ancora incontrando altri, soprattutto: perché il club dovrebbe insegnarci a parlare con gli occhi. Noi – di nuovo e invece – con una posa oltremodo conservativa e antirivoluzionaria, rifiutiamo l’applicazione pratica della teoria, contribuendo così a farla crollare del tutto, sbriciolandola a suon di chiacchiere sul dancefloor, fotografie, fischi, urla e cafonate varie, mentre in background la musica cerca aggressiva di silenziarci.

Ma, dobbiamo sistematicamente rovinare tutto non solo facendo attenzione a ciò a cui non dovremmo badare (il dj che mette a tempo) ma anche oscurando quello che il dj vorrebbe trasmetterci. Il problema è che non ci siamo accorti dell’innovazione, ed è un problema solo nostro e non di altri. Siamo così abitudinari che non abbiamo saputo adattarci a una novità implicita in quello di cui sistematicamente usufruiamo. Siamo così ottusi da non aver colto il passaggio, da non aver girato per lo svincolo giusto. Siamo così abitudinari da girare in tondo migliaia di volte attorno alla stessa rotonda, senza accelerare né decelerare mai, monotoni come dei ferri da stiro che livellano i tessuti per renderli “presentabili”.

Riallacciandoci a qualche riga fa, ecco perché da una parte – forse – si spiegano i club sempre meno numerosi e – quei pochi – sempre più grossi, i dj sempre più big stars da esporre in vetrina su un palco olimpicamente irraggiungibile, l’impianto sempre più sovraccaricato per coprire i nostri berci, i gestori sempre più imprenditori. E, dall’altra, l’inquinamento di quelli – pochissimi – che resistono con le unghie. A spiegarlo siamo noi che stiamo sotto lo stage (gli stessi negli uni e negli altri posti): una foresta sterminata di pali dritti, di pachidermi giganteschi.

Noi, che al posto di evolverci in bipedi senzienti che seguono il fluire dei tempi, ci siamo coltivati la nostra stessa pinguedine (fisica e morale), perdendo – uno dietro l’altro – tutti i treni che trasportavano i nostri “aggiornamenti di coscienza”. Ora non ci rimane altro che premere il tasto reset come si fa con i computer bolliti, o altrimenti arrenderci al diventare pulvis et umbra. I tipi di Boiler Room ci avevano provato (e prima ancora i giapponesi di Dommune) a risolvere la situazione, a cercare una via di scampo, ad incanalarsi nel progresso mettendo però la marcia indietro: perché a questo passo avanziamo a rallentatore, il che è lo stesso che rimanere fermi, cristallizzati nell’assenza di cambiamento e – peggio – nello sgretolamento dell’ebetudine. Ci avevano provato, sì, con l’intuizione di mettere il dj di spalle e chi s’è visto s’è visto. Ma – purtroppo – anche il loro è stato un fuoco fatuo, perché di fronte al dj hanno piazzato una bella telecamera che, inavvertitamente, ci ha risvegliati dalla lobotomia e ci ha trasformati tutti in modelli plastici da posa.

Quella telecamera doveva inquadrare il nulla cosmico di una schiena nera, perché è finita per inquadrare gli avventori assetati di views? Ma, direte, cosa si dovrebbe fare per porre rimedio a questo irrigidimento collettivo? Come far tornare la musica protagonista, anche se solo diffusa e non suonata, come far ballare e farci star zitti, come scatenare le effusioni sensoriali e ri-abilitarci da un lassismo che dura da abbastanza tempo? Tralasciando un “cazzo ne so io?” che ci uscirebbe spontaneo, azzardiamo che le proposte potrebbero essere molte: a partire dal diverso dislocamento dell’impianto audio e – insieme – della postazione del dj. In questo potremmo dire senza macchia che i ravers di tutto il mondo hanno pisciato parecchio lungo, centrando la pozza, ponendosi come priorità la musica e la droga, fottendosene della celebrità. Muri di casse, per citare un libro uscito di recente e dj nelle retrovie.

Per restare a Berlino, il Club der visionaere si è dotato di un impianto audio del tutto particolare: le casse penzolano dall’alto e sotto ogni cassa si creano crocicchi di gente che balla in circolo, dimenticando del tutto che qualcuno da qualche parte sta premendo play e cue, cue e play. Bisognerebbe spingersi oltre i ravers, oltre i visionari, ancora oltre, o comunque seguire questi accenni di proposte, con l’obiettivo di revitalizzare un mondo del tutto saturo di atteggiamenti controproducenti, con l’obiettivo – dico – di ritornare a quell’intimità porosa che è lo stare attaccati come sardine orientate in tutte le direzioni e liberarsi dai mali del mondo permettendo a quei momenti di essere di pura evasione, per poi tornare alla luce, curvi sotto il peso delle nostre quotidianità.

Giacomo Crosetto