La collaborazione tra Vintage Culture e SHOUSE in “Take Me (To The Sunrise)” si colloca in un territorio intermedio: un brano che non punta a rilanciare l’ennesimo climax da mainstage, ma a esplorare un’area più morbida e contemplativa della produzione di Vintage Culture.

Per l’artista brasiliano, reduce da un percorso costruito tra chart globali, residenze ad alto profilo e una crescente standardizzazione del suo sound verso formati festival-ready, questo singolo rappresenta una deviazione che merita attenzione.

SHOUSE, dal canto loro, continuano a portare avanti la loro pratica vocale e comunitaria — qui però calibrata, più contenuta rispetto alle stratificazioni corali che li hanno caratterizzati. La loro presenza non invade, non monumentalizza: si adagia piuttosto come un elemento testuale che suggerisce intimità più che collettività.Il brano vive su una tensione tenue: la produzione di Vintage Culture lavora per sottrazione, con un basso rotondo e poco invadente, pad che ampliano la percezione dello spazio e dettagli ritmici ridotti all’essenziale.

L’obiettivo sembra essere quello di costruire un ambiente sospeso, quasi neutrale, in cui la voce dei SHOUSE possa emergere senza ricadere nella prevedibilità dell’anthem emotivo.“Take Me (To The Sunrise)” funziona soprattutto quando lascia respirare la sua semplicità. Non c’è una vera ricerca di rottura, né un tentativo di rinegoziare i codici dell’elettronica melodica contemporanea.

Piuttosto, si percepisce la volontà di sondare un territorio intermedio: un brano che si muove su dinamiche contenute, che evita l’enfasi e lavora sui margini dell’intimità. La collaborazione rivela così un’interessante dialettica: Vintage Culture sembra usare i SHOUSE come catalizzatori per rallentare e osservare il proprio linguaggio da un’altra angolazione, mentre i SHOUSE trovano nell’estetica più levigata del produttore brasiliano una superficie su cui misurare la propria essenzialità.

Il risultato è un traccia che non cerca la sorpresa, ma un nuovo equilibrio. Una forma di transizione, forse, più che un punto di arrivo: un tentativo di ridefinire lo spazio emotivo della produzione mainstream senza abbandonarne completamente le coordinate.