fbpx

Cornelius Harris, label manager del collettivo Underground Resistance, si scaglia nuovamente contro l’uso improprio del logo UR.

Chi vive di musica e ne associa un ideale, uno stile di vita e un credo, non vuole per nessuno motivo al mondo che questo venga usato impropriamente o addirittura a discapito della propria ideologia. Ultimamente, la Underground Resistance sta manifestando tramite il suo label manager Cornelius Harris un certo fastidio per via di quest’uso improprio da parte di chi non sa, o fa finta di non sapere.

Il collettivo, fedele alla sua attitudine militante, non le manda a dire proprio a nessuno, proprio come ha fatto un paio di mesi fa accusando di plagio Armin Van Buuren. Quest’ultimo, per il nuovo party di Ibiza aveva utilizzato una una sigla che alla squadra UR è sembrato essere palesemente similare al loro marchio, come scelta delle lettere e del formato.

Sulla loro pagina Facebook ufficiale erano circa le sette del mattino del 5 agosto quando Cornelius Harris si è schierato contro tutto e tutti per manifestare il suo disappunto e quello della label tutta in un post piuttosto piccato. Il post rivendica innanzitutto di far sapere al mondo che nessuno può e potrà mai fargliela sotto al naso, soprattutto fintanto che c’è l’occhio vigile del manager ufficiale della label.

Cosa è successo: alcuni artisti UR sarebbero stati chiamati da un agente (o presunto tale) non affiliato al collettivo per suonare in un club di Parigi. Anzichè promuoverlo come side-project a sè stante, tale agente avrebbe dato l’ok a pubblicizzare tale evento non-UR come un party legato al collettivo. Costui avrebbe quindi utilizzato impropriamente, e soprattutto consapevolmente, il nome dell’etichetta per pubblicizzare l’evento.

Tutto ciò ha suscitato l’ira funesta di Cornelius Harris che non ha saputo resistere alla tentazione di spiegare la sua al riguardo, ed ha utilizzato la fan page del movimento per sfogarsi a nome suo e di tutti i membri. Non è nemmeno mancata una frecciatina al caso Van Buuren, con Harris che ha rilevato quanto ultimamente appropriarsi del logo e della reputazione del collettivo sia un andazzo al quale molti si sentono autorizzati, come se bastasse nascondersi dietro al pretesto del divertimento e di organizzare una bella festa. Ma c’è anche qualcosa oltre al marketing, ai soldi, al profitto inseguito costi quel che costi, e che il lavoro degli altri e la loro integrità è qualcosa di “unexploitable” – non sfruttabile, non consumabile – ed è ciò che ha realmente significato.