Nato in Abruzzo per lasciare un segno Direzione Berlino in veste di allievo. Il ritorno in Italia per essere guida: l’intervista a Simonpietro Malandra.
Una storia di adattamento, evoluzione, responsabilità e consapevolezza. Simonpietro Malandra, in arte Malandra Jr, esamina il suo passato, puntando lo sguardo al futuro.
Ciao Simonpietro, grazie per essere con noi. Vorrei partire dalla tua ultima creazione, “Sveva” uscita su Diynamic. Com’è nato questo EP e cosa ti ha ispirato? E che significato ha per te pubblicare una tua opera su questa label?
Il disco nasce per un bisogno di creazione musicale che andasse più su un versante dancefloor, anche perché dopo Magnetic avevo bisogno di convogliare più persone possibili. E ho scelto questo nome perché tra le tante tracce che produco la mia bimba era veramente innamorata di questa in particolare, la vedevo ballare. Così ho proposto questo nome a Diynamic e loro hanno accettato, essendo per me motivo di onore, e quindi abbiamo scelto questo nome, dedicandolo a mia figlia. Dietro a questo EP vi è anche un lato emozionale.
Ho vissuto dei momenti particolari, e la mia bimba mi ha dato questa forza gigantesca, una forza interiore, per poter approdare nuovamente in Diynamic, e diciamo che due dischi completamente diversi su questa etichetta, credo che per me possano essere motivo d’orgoglio. Diynamic oggi, per un producer, rappresenta una sorta di punto di arrivo, una conferma di professionalità.
Ti va di parlarci di quali saranno le tue prossime produzioni?
Come prossime produzioni ho un remix per Rafael Cerato e Marc DePulse su Jeahmon! Records, e poi approderò in Renaissance Records, un’altra label storica. Insomma sono bello sotto pressione. In questo caso, a differenza di Diynamic, ci sono suoni più imposti. Ritornerò in questa collaborazione con Renaissance con della musica un po’ più di nicchia.
Parlando invece della tua etichetta discografica “Lux Et Umbra”, come procede il progetto? C’è una direzione artistica che hai deciso di seguire?
Per adesso sto seguendo tutta l’organizzazione cercando di ottenere anche fondi e sponsor. L’incipit di questa label è quello di unire diverse personalità. Non riesco a imporre un solo genere, perché io oggi sono di un colore, domani di un altro. Impronterò Lux Et Umbra in questo modo, perché per me la musica esiste solo di due tipi, buona e meno buona, non mi metterò nessun paletto. Il nome fa tornare in mente la luce e l’ombra, quindi ci può essere spazio per la musica di luce, musica molto chiara, o musica molto scura. Vorrei inserire un logo basato su Il Guerriero di Capestrano, essendo io abruzzese, e ad oggi questo guerriero rappresenta anche un’iconografia di mistero, non sapendo da dove provenga e quale fosse il reale scopo di questo personaggio. È un progetto che dunque mi lega anche alla mia terra. Vivendo all’estero ho assimilato un concetto che per noi italiani negli ultimi venti, trent’anni è un po’ mancato.
Noi abbiamo avuto grandissimi dj, che però, purtroppo, diciamo hanno tirato acqua solo al proprio mulino, senza creare un hub per tutti i giovani talenti emergenti. Io sono dovuto espatriare per affermare il mio nome, e mi auguro che questa sia un’opera buona per aiutare il movimento. Mi ricordo che ai miei tempi in Italia non c’era nulla, e ancora oggi non ci sono realtà affermate, tranne Afterlife che però non è propriamente di base in Italia. Vorrei appunto creare un hub per le nuove generazioni, per chi considererà questo lavoro parte della sua vita, per coloro che diventeranno professionisti.
Torniamo indietro nel tempo, al giovane Simonpietro intento nell’intraprendere la via del conservatorio. Cosa significa per te la tua formazione?
La mia formazione rappresenta tanto. Se posso dirti, io non ascolto niente di dance, ascolto tutt’altro che musica dance perché ho una base ed un bagaglio culturale e musicale che è stato plasmato a 360 gradi anche grazie alla mia famiglia.Noi Malandra siamo musicisti da quattro, cinque generazioni. Per me era come “il figlio dell’avvocato che farà l’avvocato, il figlio del notaio che farà il notaio”. Per me la musica, è un po’ brutto da dire, ma è stato qualcosa di imposto; mi sono ritrovato già alla tenera età di quattro anni con un clarinetto in mano. Sono partito dalla banda, essendo l’Abruzzo regione di forte tradizione bandistica.
Il conservatorio, fino all’Accademia Teatro Alla Scala, poi diverse orchestre come quella dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Diciamo che oggi la cosa è inflazionata, però quando sono arrivato ad un’età più matura ho iniziato a capire che avevo bisogno di creare più che di eseguire. Sì, eseguivo delle musiche fantastiche, ma non erano musiche mie. Oggi definire un musicista è difficile, perché molti sono ottimi, mostruosi esecutori, ma non musicisti. Il mio intento era quello di lasciare una traccia, una traccia indelebile. Con un disco, bello o brutto che sia, il corpo muore; tutto ciò che c’è attorno no, il tuo nome rimane, e questo è un concetto molto importante.
Cosa diresti ai ragazzi giovani?
Vedo flotte di genitori che si esaltano perché il figlio sa mixare due pezzi, ma per me il mixaggio non è suonare, assolutamente. Io personalmente quando vado a lavorare, mixo, non suono. Il suonare è un concetto molto difficile, richiede applicazione, dedizione, richiede molti fattori. Alle nuove generazioni, e ai genitori di queste, consiglio sempre l’inizio con uno strumento reale, fisico. Mio nonno che è stato uno dei più grandi solisti abruzzesi diceva: “Devi imparare a leggere il giornale, non apprenderai mai le notizie se non sai leggere.” Oggi dal mio punto di vista c’è una sorta di superficialità nell’approccio alla musica, un po’ dovuto alla tecnologia che ci aiuta tantissimo.
Però credo che fra tantissimi producer, si può capire chi bazzica musica, chi possiede conoscenza musicale, e chi non ne ha per nulla. Poi dipende, perché nella musica elettronica e nella dance non sono una persona che dice che serve una cultura musicale pratica e fisica. L’istinto musicale domina in questo genere, ed è bellissimo. Però comunque credo che sia importante avere una minima conoscenza musicale. Ad esempio sapere a cosa servono i tasti neri e i tasti bianchi e che funzione hanno, o sapere qual è il disco A o il disco B. Insomma, per me è molto più importante questo. Anche perché io non nasco come dj, ma nasco come musicista.
Se potessi parlare con il te giovane, cosa gli diresti? Cambieresti qualcosa del tuo passato?
No non credo gli direi niente. Ti ripeto, io ho avuto un percorso molto imposto, avevo delle spiccate doti naturali. Mia mamma è stata speaker radiofonica, ed una delle migliori insegnanti di dizione in Italia, e mio padre un grande jazzista. Io sono nato con “la bottega” in casa. Nato dentro una radio e dietro diverse casse armoniche, dove ricordo che mi addormentavo beatamente anche con dei decibel incredibili. Diciamo che sono parte della musica, senza la musica non sarei niente. Indipendentemente dalla dance, avrei fatto comunque musica. E ringrazio ciò che ho vissuto, perché quando un ragazzino di quattordici anni pensa che così è molto pesante, una volta arrivato ai venticinque si renderà conto che aver studiato gli sarà estremamente utile. Però se avessi potuto cambiare qualcosa del mio passato, avrei cambiato strumento; invece che uno strumento a fiato avrei optato per uno strumento ad arco: il violoncello, che a me piace molto.
Un consiglio che vorrei dare ai genitori di figli che approcciano il mondo musicale è di aspettare la loro scelta. A quattro anni sono partito direttamente con il pianoforte. A cinque mi avevano messo le mani su un clarinetto. Capisci bene che a quell’età non c’è un panorama di scelta. Il “problema” della musica è che però necessita di un approccio, un processo lento, e dunque è considerata buona cosa far partire un ragazzino in giovane età, come per la danza o per arti molto difficili. Questo per sviluppare anche a livello fisico il proprio corpo, sullo strumento; per poter sviluppare gli arti, le mani, le dita, la bocca, su di esso, così da farlo arrivare a vent’anni e dire “wow, questo è un grande clarinettista”, o un fagottista.
L’unica cosa che avrei cambiato dunque è lo strumento, avrei scelto un arco. Soprattutto anche perché nelle parti orchestrali, il clarinetto non è il re dell’orchestra, ed è una carriera molto difficile. Con il violoncello sei sempre un esecutore, però con un arco hai delle libertà differenti date appunto da uno strumento re, anche suonando quelle note che sono imposte. Per noi clarinettisti la goduria era il momento dell’assolo, il momento in cui l’orchestra ti porge la mano, ma oltre questo, uno strumento a fiato è estremamente più limitato rispetto ad un arco.
La tua musica possiede un fascino raro. Cos’è che ti stimola nel lavoro? Da cosa prendi ispirazione? Invece, risentendo delle tracce finite, pensi mai “questa avrei potuto farla diversamente?”
Io mi trovo sempre un difetto, e devo ringraziare questa paranoia, perché mi fa andare avanti. Spero non finisca mai, perché mi permette di consegnare dei prodotti che considero professionali. La forte spinta, verso un mondo più professionale l’ho avuta con mia figlia. Se mi vengono dati un martello e un chiodo, io faccio un buco nel muro malissimo; per tutto ciò che non riguarda la musica sono veramente particolare. Prima della nascita di mia figlia era tutto un gioco, tutto mi veniva facile, ma era appunto considerato un gioco. Sapendo fare solo musica, la nascita di mia figlia mi ha dato una spinta in più per fare le cose nella maniera migliore. Il fatto di avere una famiglia, di chiudere e di essere il più professionale possibile.
Da ragazzo che lo fa perché possiede talento, ho dovuto evolvermi facendola diventare una professione vera e propria. Anche semplicemente rivedere gli orari. Per anni e anni ho lavorato di notte e dormivo di giorno. Questo stile di vita l’ho dovuto abbandonare, per dare spazio a quello che è un lavoro. Ho le mie ore e devo lavorare in quelle ore. È qualcosa di normale, come qualcuno che lavora all’ufficio del catasto, però è diventata così la mia professione. Sono molto serio, so di non avere tutto il tempo che avevo prima, e devo dare il massimo. Credo che questo faccia la differenza, che sia lo switch tra l’essere un amatore ed essere un professionista. Questo l’ho imparato con il tempo e soprattutto avendo avuto una figlia. Spesso non si capisce questo concetto; quando si è soli si sta bene e non ci sono problemi, ma quando poi arrivano delle scadenze, e ripeto, quando sai di saper fare solo questo, viene quasi paura, e ho dovuto sistemare tutto, e credo di esserci riuscito. Anche l’etichetta sarà un passo in avanti, oltre la musica. Dare spazio ad altri ragazzi e permettergli di capire questo concetto, perché in Italia abbiamo disperato bisogno di hub, dove i ragazzi possono realizzare musica e stare tranquilli.
La mia label non sarà fine a se stessa, fine al disco. Prendendo spunto da molte label europee l’idea è anche quella di fare showcase. Adesso vedo che iniziano a sorgere buone label italiane, e speriamo che le cose vadano sempre meglio. E ad oggi, senza ombra di dubbio, possiamo dire che i migliori producer al mondo sono italiani; noi abbiamo un pathos differente rispetto ad altre nazionalità. Soffriamo un po’ gli inglesismi, in pochi mettono nome e cognome italiano, si cerca sempre di trovare un a.k.a. anglosassone. Per approdare su grandi etichette cerchiamo di essere il più inglesi o tedeschi possibile, ma io non mi vergono della mia nazionalità, anzi. Ho scelto di tornare da Berlino e vivere in Italia, dovrebbe essere così per tutti i ragazzi, e faccio un discorso anche più ampio che non comprende solo la musica.
Dobbiamo ricominciare a credere più in noi stessi. Il numero di producer in circolazione, dalla dance, alla techno, alla hardstyle, all’hip-hop: dove vai trovi italiani, siamo fortissimi. Ritengo però che un passaggio all’estero sia comunque fondamentale, per conoscere ed avere un bagaglio culturale più ampio. Mi ricordo che quando andai a Berlino c’erano caterve di italiani ad elemosinare venti minuti di set al Club Der Visionaere. Invece io facevo parte di quella schiera di italiani che cercavano il maestro. Io sono andato a lezione, per curare il mio mix, per curare l’equalizzazione del pezzo, per far suonare la cassa come doveva suonare, per curare il kick. Il tutto comunque in una città completamente inflazionata, più di 100 euro non ti pagavano. Mi ricordo una volta che mi pagarono con gli spiccioli fatti il pomeriggio con i caffè, aprirono questo cassetto e mi riempirono la mano di spiccioli, mi pare fossero intorno ai 37/38 euro; non me lo scorderò mai. Detto questo, tanto di cappello per chi prende una borsa e va all’estero. Adesso oltre alla Germania sono ottime nazioni anche l’Olanda e l’Inghilterra.
I ragazzi dovrebbero andare lì e “rubare” per tornare in Italia. Posso dirti che se non fossi venuto a contatto col popolo tedesco, oggi non sarei Malandra Jr. La contaminazione culturale è un elemento fondamentale, e in Italia noi abbiamo ancora un sound imposto, ed uno strascico degli anni ’90. Siamo ancora molto chiusi; in Italia se esci da uno stile tech house vedi già i primi nasi storti. Il sound internazionale non è ancora il benvenuto in Italia, e questa è anche un obiettivo che mi pongo con Lux Et Umbra, portare un sound internazionale senza divieti e senza dover suonare per forza la tech house, che a me sincero mi ha anche un po’ rotto le palle. A volte preferisco dell’hardstyle, un set a 180 bpm piuttosto che musica ripetitiva che danneggia i ragazzini. Anche per questo è importante uscire, e sentire diverse campane.
Concludo chiedendoti, qual è il sogno per Malandra Jr?
Il sogno per me.. oddio, ne ho diversi. Vorrei essere profeta in patria. Vorrei far si che il mio nome venga alla ribalta per la musica, non per un’immagine o per una moda. Questo perché sto dando tutto sulla musica, ed io non essendo particolarmente mondano, se riesco a suonare in determinati club o eventi e farmi notare, è solo per la musica.
Il mio sogno è quello di essere uno dei migliori in Europa e al mondo per quanto riguarda la mia musica, portando la mia nazione con me. Inoltre, c’è un dato che va oltre la musica: 30 mila giovani all’anno lasciano l’Italia, e questo solamente per colpa nostra. Voglio ribadire il concetto: sì, vivi un periodo all’estero, ma sappi che in Italia ci sono delle basi su cui puoi lavorare. Questo è un altro mio sogno, aiutare gli altri.
Simonpietro, grazie mille per essere stato con noi per questa stimolante chiacchierata!
Grazie mille a voi di Parkett!