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Un festival per funzionare ha bisogno di pochi elementi: cura del dettaglio, passione e un grande team. Ma Nameless Festival non è come tutti gli altri. Ce lo racconta Alberto Fumagalli.

Una chiacchierata durata circa trenta minuti quella con Alberto Fumagalli, Deus ex machina di Nameless Festival. Durante l’intervista abbiamo ripercorso dieci anni. Dieci anni di grande passione e dedizione, che hanno contribuito a rendere questo evento appuntamento fisso di ogni appassionato di musica elettronica.

Ma, se è vero che ascoltare parlare di un festival così importante è appassionante, assaporare parola per parola il profondo trasporto di Alberto Fumagalli nel ripercorre tutti questi anni di musica hanno reso tutto un po’ più speciale.

E questa intervista – atipica a suo modo – vuole offrirvi proprio questo. Un punto di vista differente rispetto a ciò a cui siamo soliti pensare rispetto a grandi eventi. Perché dietro a qualcosa di imponente come Nameless ci sono personalità ancora più di spessore, e Alberto Fumagalli è una di queste.

Ciao Alberto! È un piacere averti su Parkett! Back in the days. Come nasce Nameless, e quando tu, Federico e Giammarco Ibatici avete deciso che fosse arrivato il momento di creare qualcosa di così importante come Nameless?

Quando è nato Nameless nessuno pensava di creare qualcosa di così importante: Nameless nasce dalla follia di un gruppo di ragazzi lecchesi che non avevano un euro in tasca, ma amavano organizzare le feste. A furia di farne tante e di farne sempre di più grandi alla fine siamo arrivati alla decisione di fare un festival. Poi chiaramente fare un festival non è una cosa semplice.

L’incubo iniziale, nel 2013, si è trasformato in uno sforzo collettivo che è stato portato avanti con il sudore, con la passione e con la voglia di creare qualcosa di sempre più importante. Tutto questo è stato fatto per colmare la lacuna principale: i soldi. Perché fare un festival come Nameless senza soldi è veramente impossibile. Eppure eccoci qua (ride, ndr).

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli, fondatore di Nameless

Ci sono due temi nello specifico che da sempre sono molto cari a Nameless: ambiente e futuro. Partiamo dall’ambiente. So che fate molto per la tutela dell’ambiente pre e post-festival. Come gestite questa cosa, dato che ogni anno cambiano le norme in materia?

Ad essere sincero abbiamo adottato un approccio molto attento nei confronti dell’ambiente da quando siamo andati a Barzio, nel 2015. Ci siamo resi conto di cosa significasse vedere anche solo un bicchiere di plastica volare via e disperdersi in quei bellissimi prati dove si trovano gli animali a vivere la loro vita in pace. Il secondo punto relativo al turismo. Questo è più legato al percepito che ogni anno cerchiamo di dare sempre più. Ma ci vorrà ancora un po’ per arrivare all’obbiettivo che abbiamo, che è il lago di Como.

Parto dal discorso ambiente: quest’anno faremo il primo grande festival in Italia – se non il primo in Europa, sicuramente fra i primi – dove ci sarà un palco completamente alimentato a batteria, caricate con energia certificata cento per cento green. Questo grazie alla nostra partnership con CGTE (si riferisce a CGTE Cat Rental, azienda che si occupa del noleggio di apparecchiatura per l’allestimento di grandi eventi, dr) che è il più grande player nel settore. E loro ci hanno permesso di avere questa premiere di cui siamo molto fieri.

E come nasce questo rapporto con l’azienda?

È bello da sapere. Questo rapporto tra Nameless e CGTE è proprio nelle radici di questa azienda: loro inizialmente facevano soltanto noleggio di macchine movimento terra, finché il loro capo commerciale Lombardia è venuto a vedere perché un gruppo di ragazzi continuava a noleggiare macchine movimento a terra in cima alle montagne sopra Lecco.

È venuto a vedere e si è reso conto delle potenzialità di questa realtà, che il mondo degli eventi potesse essere uno sbocco per le sua azienda e da lì hanno iniziato ad investire. E noi siamo orgogliosi di avere un partner così importante che di fatto è cresciuto insieme a noi. E questo è già qualcosa di bellissimo.

Per noi la tutela dell’ambiente è davvero fondamentale: abbiamo degli incentivi per far arrivare le auto piene alle colonnine per le auto elettriche nel parcheggio, fino ai pannelli solari sui tetti dei compound dei container, per farli funzionare senza generatore. Stiamo facendo davvero un percorso importante che auspichiamo possa continuare ad essere sempre più importante nei prossimi anni. Noi crediamo che il rispetto del luogo che ci ospita sia la nostra prima risorsa.

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

Sì, ok. Ma voi fate anche molta attenzione a rendere il festival un asset importante per il territorio che vi ospita...

Esatto. Sta a noi a coinvolgere e a rispettare, a fare ogni singolo passo in armonia con i residenti, con l’obbiettivo di trasformare il festival in una risorsa importante di sviluppo turistico del territorio. Territorio che ha già una condizione “extra-lusso” perché il lago di Como è tra le mete più ricercate a livello mondiale, soprattutto dagli Stati Uniti.

Ma questo non significa automaticamente che il festival possa essere una risorsa per il turismo o che attraverso il brand “Lago-di-Como” ci sia una spinta al festival. Sta a noi avere un approccio sempre orientato al futuro, sempre orientato a cercare di crescere fino ad arrivare ad abbracciare quella fetta di clientela che, ad oggi, arriva, sì, ma in piccole percentuali e che potrebbe determinare un posizionamento ancora più alto del nostro festival a livello internazionale. Continuiamo e continueremo a lavorare in quella prospettiva.

Immagino che tutto questo ripaghi sia in termini di soddisfazione personale che di guadagni...

A tutti quelli che ci chiedono quanto facciamo di guadagno, noi rispondiamo sempre “quello che abbiamo investito sulla prossima edizione!”. Quella è la nostra direzione e continueremo imperterriti con l’obbiettivo di portare nel nostro paese qualcosa faccia veramente la differenza, e che aiuti tutto un settore che troppo spesso si trova proiettato all’interno delle rassegne di concerti e quindi alla monetizzazione “banale” del singolo artista.

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

Noi puntiamo all’esperienza-festival a tutto tondo: siamo sicuramente l’unico festival ad avere oltre il settantacinque per cento dei presenti che partecipa con un biglietto abbonamento 3-giorni, e questo certifica che la strada sia quella giusta. Noi crediamo che questa sia la strada giusta anche per far nascere una comunity di festival importanti nel nostro Paese, utili a sviluppare in ampiezza il bagaglio culturale del paese stesso.

E poi una cosa che si riflette molto anche sul vostro pubblico è la freschezza dello vostro Staff: tanti giovanissimi e altri meno giovani, come te e Gianmarco che di esperienza ne avete da vendere. Spiegaci: come si articola il lavoro di preparazione lungo i 365 giorni che passano tra un’edizione e un’altra?

È piuttosto semplice: siamo un’impresa artigiana come dimensione e ci occupiamo di festival in modo artigianale. Abbiamo cresciuto all’interno del festival stesso tutte le figure utili alla costruzione e creazione di un evento del livello del nostro Nameless.

Non mi vorrei soffermare sulla parte della lineup. Questo perché di fatto la lineup è sempre un prodotto che nasce dallo scontro tra più persone e più visioni che scontrandosi portano a generare quel mix che, visto da fuori, può sembrare anche da inconscienti. Tantissimi quest’anno potrebbero pensare che abbiamo fatto un mix incosciente.

Ma queste scelte non fanno altro che a certificare quello che ti dicevo prima: creare un qualcosa che possa rappresentare in Italia una visione più ampia di tutto quello che ruota intorno alla parola musica nel mondo. E non soffermarci solo su chi vende i biglietti.

Nameless Festival

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

L’incoscienza o la follia, a volte, possono offrire chiavi di lettura out-of-box che mostrano il vero potenziale di una realtà come Nameless

Ogni anno ci permettiamo di inserire in lineup artisti che non vendono biglietti, proprio grazie a questa forza intrinseca che ha Nameless. La forza più grande che ha il festival però non è quella di aver azzeccato “l’artista-giusto-al-momento-giusto”. Dati alla mano, posso dimostrare che, dal 2013 fino ad oggi, non abbiamo mai avuto impennate di isteria dettate dal nome di un artista nel cast in un giorno singolo. Non c’è mai un artista che determina le diecimila presenze in più.

Il delta è dato più dal giorno: il sabato sera è sempre il giorno preferito per chi vuole fare solo un giorno, magari perché ci sono impegni di lavoro o di altro; poi c’è la domenica e così via. E queste cose sono sempre state così, e rimarrano così, perché Nameless non è mai legato all’artista singolo. È chiaro che i meriti di chi fa la line-up stanno nella capacità di interpretare i movimenti di un mercato che tante volte è anche difficile da comprendere e gestire.

Quindi ora a cosa punterà Nameless Festival sotto il profilo musicale?

Abbiamo avuto anche il piccolo cambio di rotta, o comunque il tentativo di sganciarci dalla scena urban, cosa chiaramente che non è dettata da una inimicizia o uno scarso interesse verso quella tipo di scena, ma parte dalla volontà di allargare i confini del festival partendo dal punto in cui eravamo più chiusi: quello della musica live.

Secondo me la vera arma in più di Nameless è la passione. Quel manipolo di ragazzi che dieci anni fa senza un euro hanno deciso di fare di questa vita il proprio lavoro, ad oggi ha sviluppato una attitudine al problem solving, nel portare cose innovative e fresche anche quando il mondo intorno ti diceva fossero impossibili da fare. Tutto questo studiare e lavorare ci ha portato ad avere una squadra che io considero senza rivali nel produrre un festival a trecentosessanta gradi.

L’aggiunta costante di nuove attrazioni, e di tutto ciò che fa di un festival una vera e propria esperienza, sono tutte cose nate dal fatto che chi produce questo evento è innamorato del lavoro che fa. Questo fa la differenza più dei cento, duecento mila euro che puoi pagare al più grande direttore di produzione. La passione è quello che muove tutto e sono convinto che i clienti di Nameless lo siano da tanti anni perché hanno sempre avuto questo percepito ogni volta che ci hanno scelto per trascorrere un weekend immersi nella musica.

Nameless Festival

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

Ora parliamo un po’ di risultati: fuori i numeri! Ho visto che i Ticket VIP sono già tutti sold out così come i Tier 1 e 2 delle General Admission. Quando avete cominciato nel lontano 2013 immaginavate questo tipo di successo?

Le vendite stanno andando benissimo! Abbiamo fatto anche un piccolo restock, ma niente di significativo (ride, ndr). Per quanto riguarda i i nostri inizi la risposta è “No”. Non avevo minimamente idea di cosa stavo andando a fare: ero un incosciente! L’anno scorso abbiamo fatto circa centomila presenze, quest’anno l’obbiettivo è mantenere i numeri dell’anno scorso.

Magari può sembrare controintuitivo considerando che abbiamo detto che puntiamo sempre a migliorarci. Il motivo è semplice: abbiamo tolto una giornata. Quindi rimanere con gli stessi numeri, con un giorno in meno, significa crescere del venticinque per cento, che non è male.

Ma quest’anno ci sono stati anche tanti altri cambiamenti sul lato branding: Nameless ha cambiato nome, diventando “Nameless Festival”. È una mia suggestione o Nameless vuole dimostrare di essere diventato un’esperienza, più che un “semplice” festival? Fermo restando che la musica rimane il fil rouge dell’intero evento...

Te la faccio molto breve. L’italia in questo momento è piena di festival che, a mio avviso, e nessuno me ne voglia, ma non sono festival. Quelli che realmente possono dirsi tali si contano sulle dita di una mano, e avanzano pure le dita.

Parliamo di grandi festival, non di piccole realtà. Con questo cosa voglio dire: nel nostro Paese si pensa di poter fare un festival semplicemente mettendo in fila quattro nomi. Noi sentiamo l’esigenza di dover allontanarci da questo modello.

Noi rappresentiamo qualcosa di completamente diverso. Questa scelta è stata acuita da questa motivazione: non possiamo permetterci di essere considerati alla stregua di chi fa semplicemente il promoter. Non ce ne vogliano i promoter, ci mancherebbe altro. Riteniamo che ci sia tutta un’altra parte del lavoro, che chi fa anche solo dieci concerti l’anno, non può permettersi di curare. Non può edicare tempo ad un progetto per trasformarlo realmente in un festival.

La carenza di figure professionali qualificate per fare questo genere di attività nel nostro Paese determina la mancanza di una reale offerta, e coseguentemente rado di una vera domanda di festival italiani. E così ti trovi gli amanti dei festival “esiliati” al di fuori del nostro Paese, poiché hanno poche realtà che li possano rappresentare sul nostro territorio.

Ora che stiamo gradualmente uscendo dalla pandemia – e speriamo non ci siano cambi di situazione – possiamo tirare un attimo le somme. La pandemia ha interessato pesantemente questo settore. Ma, nello specifico, cosa è cambiato nella vostra ottica post-pandemia?

Ti dico la verità, dal mio punto di vista tra pre e post-pandemia non è cambiato nulla, se non la voglia di recuperare due anni persi. Per il resto non c’è stato alcun cambiamento, se non la consapevolezza del voler ricominciare da dove eravamo rimasti. E mi pare che l’anno scorso ci siamo riusciti.

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Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

Creiamo un po’ di discussione: pensi che le altre realtà italiane riconoscano l’importanza di Nameless per tutto il panorama dei festival italiani o c’è ancora un po’ di diffidenza?

Nameless si trova ad essere un posto in cui tutti i rapper e trapper vogliono andare, ma troppe volte non viene percepito come un asset utile allo sviluppo del profilo dell’artista stesso da parte di chi si occupa dei loro tour. Di contro, nel mondo dei DJ, Nameless non è considerato per ciò che è, perché purtroppo – o per fortuna – è l’unico grande festival ibrido.

Gli altri festival italiani, non me ne vogliano, fanno qualcosa di diverso (“ti propongo l’esempio di una realtà come il Red Valley che sta prendendo sempre più la strada di una rassegna, ma lo comprendo visto che si tratta di un evento che si svolge in pieno agosto e diventerebbe difficile contestualizzarla in modo diverso, piuttosto che Kappa o Decibel”, ndi).

Ognuno sta seguendo di seguire la propria strada, cercando di sondare i terreni altrui per provare ad allargare l’audience. La differenza però è proprio lì: noi non siamo e non saremo mai una grande discoteca, e non siamo nemmeno una rassegna di concerti. E questo lo dico con tutta la stima del mondo per gli eventi che ti ho citato e mai con tono dispregiativo. Vogliamo continuare a mantenere un’identità che ci porti ad essere qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri.

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

Come dicevamo prima, la vostra proposta musicale si è molto diversificata nel tempo. È pura volontà di allargare il proprio pubblico o ci sono delle finalità più ampie in termini di proposta musicale, che magari scopriremo in futuro?

Ti rispondo con un’altra domanda: “la religiosità nella musica ha determinato il successo di tanti grandi festival: mischieresti mai all’interno di line-up di eventi costruiti intorno a determinati generi cose che non c’entrano nulla, solo per averne un guadagno dal punto di vista commerciale?”.

Ti faccio questa domanda perché la storia dei festival italiani dimostra che chiunque abbia fatto delle mescolanze di genere, non le ha mai fatte su base orarie, ma su base giornaliera, questo proprio per avere un tornaconto dal punto di vista commerciale. Noi l’abbiamo fatto su base oraria proprio per puntare a qualcosa di esperienziale, per puntare a qualcosa di più ampio da quel punto di vista.

E questo a volte rappresenta anche un limite durante le trattative con management: ci tocca litigare. Di contro chi ha perseguito una linea a barra dritta, ne ha tratto dei vantaggi. È sicuramente più semplice creare esperienze attorno ad una passione comune o creare un numero enorme di biglietti spaziando fra rap e reggaeton. La nostra volontà è sempre quella di puntare all’esperienza e questa è determinata dalla filosofia che viene data dall’imprinting della line-up. Ma i cambiamenti che vedrai a Nameless quest’anno sono fatti in questa direzione.

Riguardo i “progetti futuri” so che è definitivamente tornata Nameless Records, che ha rinnovato gli accordi con Universal e Island. Molto Internationally-oriented...

Abbiamo avuto la fortuna di avere affianco una Major che ci ha creduto quando non valeva niente, nel 2013. Ha avuto i suoi alti, poi un periodo di stop dovuto ad avvicendamenti e variazioni di posizionamento delle persone (e delle attività da svolgere all’interno delle varie realtà).

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli

Oggi rinasce con l’obbiettivo, senza fretta, di creare un collettivo che possa essere direttamente, o indirettamente, alla musica elettronica nel nostro paese. Vuole essere fuori dal coro rispetto a quella realtà che è la techno, dove l’Italia è già ben rappresentata.

Questo è il punto. Va da sé che è un progetto in divenire e in cui crediamo moltissimo. Ma è solo uno dei tanti che vedrete in futuro. Per ora ho già detto troppo (ride, ndr).

Per Alberto Fumagalli a distanza di 10 anni cosa rappresenta Nameless? È la sfida ancora da superare o il coronamento di un percorso che dura da oltre 15 anni all’interno del mondo degli eventi?

Ti rispondo dicendo che ogni anno, quando arriviamo al punto in cui abbiamo finito di disegnare il festival, ci guardiamo in faccia e diciamo: “Se riusciamo a fare tutto quello che abbiamo in mente, quest’anno è la svolta!”. E ogni anno diciamo la stessa frase. Oggi siamo qui, domani non si sa. Sicuramente la nostra ambizione ci porterà a non fermarci a quello che abbiamo realizzato fino ad oggi.

Nameless Festival. Intervista ad Alberto Fumagalli