In occasione del rilascio del suo nuovo singolo “Cosplayer (Export per Guido)” abbiamo chiacchierato con Mofw (si legge mofo): tra jazz, elettronica e la voglia di fare musica come progetto collettivo.
Partiamo da te: Mofw. Chi sei dietro questo alias e che storia racconta il tuo progetto?
Mi chiamo Tommaso, faccio musica elettronica. Nasco come pianista e chitarrista, come molti, poi passato alla musica classica, jazz e poi elettronica. È stato un passaggio molto graduale: il mio maestro di jazz suonava i sintetizzatori nei Rondò Veneziano, quindi lì ho visto per la prima volta come si costruisce l’elettronica. Ho cominciato producendo rapper fondamentalmente, e poi con un gruppo di amici abbiamo fondato l’etichetta Broncio. L’idea è nata perché avevo bisogno di uno spazio per poter far uscire le cose che piacevano a me, e anche quelle che facevo io. Non sempre ci occupiamo di musica popolare o commerciale o ballabile, quindi è un po’ difficile. Fondamentalmente l’etichetta risponde all’esigenza di poter avere libertà di far uscire cose che sono difficili da proporre in giro e per seguire i progetti in una certa maniera.
Quando è stato il momento in cui la musica è diventata qualcosa di più di un ascolto? C’è un episodio che ti ha acceso la scintilla?
Ho più momenti. Ricordo che da ragazzino, sono andato a sentire un concerto e c’era questo bassista jazz che aveva questa pedaliera con un sacco di effetti e faceva dei suoni fuori di testa. Quel momento lì è incredibile secondo me. Un altro momento, è stata la prima volta che ho sentito Giuseppe Vitale, Ze In The Clouds, suonare il pianoforte. Lui ti fa davvero credere nella potenza della musica. Poi, il primo brano prodotto per Cecile è stato bellissimo perché era un primo progetto che effettivamente ho curato da zero. Quando è uscito il progetto e mi sono accorto che piaceva ho pensato “Posso fare questa cosa, non mi sto facendo un viaggio”.

E dunque, se hai una formazione classica e jazz, perché la tua carriera solista è andata a finire nella musica elettronica?
Perché non cambia molto, è questione di acustica. A differenza della musica pop, che è molto contenuto, con una forte presenza del testo, generalmente la classica e l’elettronica sono due generi acustici. Nella musica classica letteralmente ti stanno mixando davanti un pezzo con la posizione degli strumenti dell’orchestra, i vari volumi; il direttore dell’orchestra è un fonico, quindi hanno un sacco di similitudini.
Infatti, uno dei dischi più belli di elettronica che sono usciti negli ultimi anni è quello con Floating Points, Pharaoh Wonders e la London Symphony Orchestra. È proprio una questione di suono e come lo stai usando nella sua forma fisica. Anche questo è importante per me: la dimensione tangibile del suono. Ti faccio un esempio: abbiamo smesso di registrare a nastro, ma non abbiamo smesso di registrare su strumenti fisici. L’hard disk è un nastro. Semplicemente è un nastro infinito che puoi scrivere e riscrivere.
Hai parlato molto del lavoro dietro le quinte. Come approcci la produzione per altri e come cambia quando fai le cose per te stesso?
Di solito, quando lavoro per altri, faccio sempre è un sacco di riscritture. I brani non sono mai uguali nella prima bozza e nell’ultima, anzi sono completamente diversi. Quando lavoro con dei cantanti la cosa che succede più spesso è lavorare di sottrazione, quindi cominci un brano con una quantità di tracce infinita perché cerchi di coprire tutte le frequenze per avere quel tipo di effetto lì. Poi quando aggiungi la voce, ti rendi conto che sta dicendo qualcosa, quindi devi togliere per lasciare spazio effettivamente a quello che dice il testo.
Invece sulle mie produzioni… io mi sento veramente antipatico a parlare di queste cose in questa maniera, perché il passaggio è elettronica, concetto, Fisher. Tre parole che sono stufo di leggere. “Cerco degli strumenti che siano un po’ hauntologici”. Va bene, lo abbiamo letto tutti quel libro. Non sei Burial (ride). Quando lavoro sulle mie cose di solito non faccio “concetto”, faccio “progetto”. Ad esempio, in Aspri, il disco precedente uscito durante il COVID, era pensato per andare a ballare perché – discorso banalissimo – eravamo tutti chiusi in casa. Quindi ho preso questa suggestione e scelto batterie più spinte, i suoni erano tutti acidi. Ho usato tre strumenti in croce, cioè tre sintetizzatori: il 303, l’808 e l’MS20 per usare i filtri. Invece nell’album in uscita, c’è un discorso di chiusura di mie fasi personali, chiamiamolo un “break up album” – senza esserlo in maniera dichiarata perché è ridicolo (ride). Questa suggestione mi ha portato a selezionare suoni più amari, produrre tracce lente. Diciamo che sui miei progetti c’è la volontà di rendere tangibile tramite la costruzione sonora quello che sto provando in un certo momento – andando oltre la nozione di struttura. È roba mia, quindi posso decidere io. Per gli altri cerco di lavorare di più a riscritture, perché quando vogliono fare una una canzone, secondo me, comunque deve essere una canzone. Ci sono stati i Beatles e quindi non puoi più scappare da questa cosa che la struttura strofa-ritornello esiste all’orecchio delle persone che ascoltano. Niente contro i Beatles però! Se non avessimo avuto loro, non avremmo avuto i plugin e il modo in cui facciamo musica elettronica moderna.

Parliamo di “Cosplayer (Export per Guido)”, il tuo prossimo singolo.
La traccia si chiama “Cosplayer (Export per Guido)” fondamentalmente perché mentre la facevo sentivo di voler dare un omaggio a chi mi ha ispirato nella musica, come se ne facessi il cosplay appunto. Questo in realtà ha causato in me anche una forte sindrome dell’impostore. Fatto sta che non volevo più farla uscire. Per sbaglio l’ha sentita Guido. Guido è un mio carissimo amico, se l’è fatta mandare. Di solito lui ascolta solo cantautorato italiano, solo quella roba lì. Invece, gli è piaciuta molto e mi ha motivato a finirla. Si chiama “Export per Guido” perché senza di lui la traccia non non esisterebbe.
Quindi per te la musica è una cosa collettiva.
Per forza. In generale, però, la musica è un un un settore dell’intrattenimento in cui tutto quanto è sempre ego-riferito e artista-centrico. Secondo me si impazzisce ad andare dietro solamente a questa cosa. Nel senso che poi trovi persone con cui è difficile avere a che fare. Penso che questa cosa vada combattuta. Io ho la fortuna immensa di avere un gruppo di amici ai quali sono molto legato. La mia musica è proprio una cosa di comunità. Mi piace fare le cose anche in questa maniera, voglio fare cose che mi piacciono con chi mi piace lavorare, non voglio diventare famoso. Questo è il mio pensiero, che è un po’ naïf, però è ciò che mi fa stare bene, quindi non non lo abbandonerò.
Qual è la cosa più inaspettata che ti ha influenzato nella produzione? Un film, un luogo, una persona…
Tutti i prodotti mediali collegati a Blade Runner. Uno dei miei primi approcci alla musica elettronica è stato Vangelis che ha fatto la colonna sonora del primo. Poi prendo ispirazione da un sacco di prodotti mediali: i video degli anni 90 o primi anni 2000 di artisti alle prime armi che fanno musica elettronica che li guardi e ti senti meno solo. Li vedi con i loro computer minuscoli vecchissimi, su cui usano un Ableton che metti quattro tracce e poi crasha il computer, e ora sono sui grandi palchi. Sono di grande ispirazione.
C’è un artista con cui sogni di collaborare?
Aphex Twin. Immagina, sente la tua musica, ti scrive e dice “vieni a casa mia” e tu entri nel suo studio con tutta la roba che si è costruito, i suoi sintetizzatori, i suoi programmi. Sarei felicissimo. E poi vabbè, Four Tet, sicuramente perché dall’inizio è stato di grande ispirazione. Ad esempio, talvolta uso i suoi stessi preset, ma viene fuori musica completamente diversa. Incredibile. E poi in realtà un gruppo che non fa musica elettronica, e sono i The Microphones. Fare un album assieme sarebbe incredibile perché registrano tutto molto ruvido e sporco, con dei bassi che sono incredibili. Quello sarebbe fuori di testa.
Grazie Mofw!
Ascolta ora “Cosplayer (Export per Guido)“
Foto di @matok.lab @pietroaguzzi @phdesii
