Lo scorso 8 dicembre è uscito “My Best Friend”, il singolo firmato da Cosimo Mandorino sotto lo pseudonimo CH.OP., il progetto che condivide con Whodamanny. Un punto di partenza per un’intervista che attraversa tutta la sua storia: dalle radici abruzzesi alla nascita di Mirella Records, dai club che hanno segnato una generazione alla libertà creativa che oggi guida il suo percorso.

Ci sono incontri che non si fanno: accadono. Accadono perché la musica, prima ancora di essere suono, è una traiettoria che intreccia vite, affetti, luoghi che si respirano addosso. Questa conversazione con Cosimo nasce così: non da un’esigenza editoriale, ma da un’appartenenza condivisa. Un’intervista tra amici, tra persone che si riconoscono.

Cosimo Mandorino, (alias Cosmo, Cosmo Dance, Malkuth, Dandolo), pugliese di nascita e abruzzese d’adozione, è uno di quelli che brillano senza volerlo. L’ho sempre visto così: solare, accogliente, bizzarro e presente. Una di quelle anime che ti aprono la porta, artistica e umana, senza fare rumore. Ed è bello vederlo oggi raccogliere i frutti di una passione che per anni lo ha letteralmente nutrito, consumato, accompagnato. Perché Cosimo la musica non l’ha studiata soltanto: l’ha masticata, inghiottita, digerita, rimodellata. E questo percorso gli ha restituito qualcosa di raro: un’identità precisa, una voce.

Dal collettivo Slow Motion all’etichetta che poi è diventata un riferimento internazionale, fino a Mirella Records, che oggi corre veloce e libera, con un suono che vibra come un manifesto. E in mezzo anche un capitolo che non può mancare: la Tipografia, quel club pescarese dove, per un certo periodo, la proposta musicale raggiunse un livello tale da far dimenticare la distinzione tra resident e guest.

Perché quando Guglielmo Mascio, Fabrizio Mammarella e Cosimo salivano in consolle, la pista capiva subito che non c’era nulla di meno, anzi. C’era un movimento. C’era una comunità. C’era l’Abruzzo che si esprimeva.

Ecco perché sono felice che Parkett Channel oggi arrivi a dialogare con lui: perché in questo dialogo c’è una storia che viene da lontano, c’è la mia terra, la nostra, c’è un legame personale, un profondo rispetto, e c’è il desiderio di celebrare un Artista che continua a seminare e raccogliere, come pochi altri.

Cosimo, con te si parte sempre dall’inizio. Guardandoti oggi, con un’identità musicale così definita, cosa vedi quando ripensi al primo giovane DJ che eri? Quali frammenti di quel ragazzo ti porti ancora dietro?

Ho iniziato a fare il DJ nel 2002, in piccoli bar e club di Pescara. Era un contesto intimo, acerbo, ma è lì che ho capito che quel linguaggio sarebbe diventato casa.
Ricordo che all’epoca ascoltavo musica prettamente elettronica. Compravo quasi tutti i dischi che uscivano su etichette come International Deejay Gigolo di DJ Hell. Mi piaceva anche tutta quella scena francese iniziata da Mr. Oizo e poi le prime uscite di Kitsunè. Quel mix di eleganza e irriverenza mi affascinava parecchio.

Pensando a quel ragazzo direi che ciò che mi accomuna è di sicuro la curiosità e una certa “incoscienza” positiva. Curiosità perchè è lei il vero filo conduttore della mia vita, è ciò che mi permette di rimanere sempre connesso a quella scintilla originaria. E poi decisamente un pizzico di incoscienza: la tengo a bassi giri, certo, ma è ancora un motore pulsante, che mi spinge ad andare avanti senza paura di sbagliare.

Prima di Mirella Records, c’è stata la lunga stagione di Slow Motion, dal collettivo all’etichetta. Qual è stato il momento in cui hai capito che quel percorso stava forgiando non solo la tua carriera, ma proprio il tuo modo di vedere e di costruire la musica?

L’esperienza con Slow Motion è stata il mio primo vero sguardo oltre i confini. Mi ha dato modo di aprirmi a una visione internazionale, finalmente slegata dal territorio. Fabrizio Mammarella era già un produttore rispettato nella scena ed invitava ai nostri primi party artisti di diverse nazionalità con cui aveva costruito relazioni personali. Rapporto dopo rapporto, confronto dopo confronto, la mia prospettiva si ampliava: iniziavo a vedere la musica non più come qualcosa che apparteneva al mio piccolo mondo, ma come un linguaggio che viaggiava liberamente.

Ma c’è stato un incontro che ha rappresentato per me un vero salto di livello: quello con Francisco. Seguivo le sue produzioni da anni e ritrovarmi a collaborare con lui è stato come aprire una porta che fino ad allora avevo solo immaginato. Francisco è stato la persona che mi ha davvero introdotto in questo universo. Aver avuto la possibilità di lavorare insieme a lui mi ha dato la conferma definitiva di una cosa: che anche io avevo qualcosa da dire, e che volevo farlo contribuendo attivamente a quella scena.

Mirella Records oggi si muove con grande velocità e coerenza. Qual è la scintilla che ha fatto nascere questo progetto? E cosa rappresenta per te rispetto al passato: una continuità o una rottura?

Un disco non è mai solo la musica che contiene. È un oggetto fisico, un racconto, un universo a sé: ha una copertina, un centrino, una storia, un’identità. Ogni elemento deve parlare la stessa lingua.

Mirella nasce dopo dieci anni di produzioni su altre label. Pur avendo sempre avuto un buon margine di libertà, sentivo che qualcosa nella filiera si perdeva: un dettaglio, un’idea, un’intenzione. Così ho deciso di fare tutto in prima persona. Il mio vantaggio è stato quello di aver costruito, nel tempo, una rete di persone incredibili: produttori, tecnici del suono, grafici, musicisti, che sono diventati amici. È stato naturale portarli con me. Tutti si sentono parte del progetto e responsabili della sua direzione. Mirella siamo noi: una squadra, ma soprattutto una famiglia.

Per me Mirella è prima di tutto un racconto, in ogni forma e in ogni dettaglio. Sono cresciuto guardando MTV: adoravo i videoclip, quella capacità di trasformare un brano in un mondo, in un’emozione visiva. Ho assorbito quell’energia, quella cura quasi artigianale che ritrovo anche nelle produzioni disco e synth italiane di quarant’anni fa.

Ma non è un esercizio di nostalgia. Non ha senso replicare ciò che è già stato fatto bene: i contesti sono cambiati, le storie sono cambiate, e anche il modo di ascoltare è diverso. Quello che mi interessa è recuperare l’energia di allora: quel percorso condiviso tra chi crea e chi ascolta. Un filo emotivo che un tempo era fortissimo e che oggi, con Mirella, voglio riportare al centro. Un luogo dove la musica non è solo suono, ma un’esperienza completa.

Parli spesso della libertà nel processo creativo. Oggi, nel tuo lavoro di producer, dove nasce davvero la libertà: dalle scelte tecniche o dalla maturità emotiva?

Per me la libertà è prima di tutto una scelta emotiva. Il luogo in cui siamo davvero liberi non è lo studio, non è l’attrezzatura, non è la tecnica: è dentro di noi. È uno spazio interiore in cui possiamo muoverci senza filtri, senza aspettative, senza dover dimostrare nulla.

Le scelte tecniche arrivano dopo. Sono fondamentali, certo, ma svolgono un altro ruolo: ti aiutano a razionalizzare quel flusso emotivo, a trasformarlo in qualcosa di concreto, a metterlo dentro un contenitore che possa essere condiviso e compreso da tutti. La tecnica, in fondo, è il ponte, ma la sorgente resta sempre emotiva. È lì che nasce tutto.

L’Abruzzo è stato, e continua a essere, una cantera di talenti: Guglielmo Mascio, Fabrizio Mammarella, Franz Scala… Secondo te cosa c’è in quella terra che continua a generare personalità musicali così forti e riconoscibili?

Credo che tutto nasca da un humus culturale molto concreto. Io sono arrivato in Abruzzo a 18 anni e mi sono trovato in una scena che già aveva metabolizzato una solida club culture: basti pensare all’Underground City di Popoli, che all’epoca era un punto di riferimento in Italia. Si veniva da tutte le parti per ballare lì, e Guglielmo Mascio era il resident storico. Per chi iniziava era un modello da seguire, uno che alzava davvero l’asticella del mestiere.

Erano anni in cui il vinile era l’unico supporto e suonare voleva dire o saperci fare davvero, o restare fuori. Comprare dischi ogni settimana era una spesa non banale: questo filtro economico faceva selezione. Dovevi crederci, non era una cosa che si faceva per moda. Quel vincolo ha formato una generazione che prendeva sul serio il proprio lavoro: più dedizione, più ricerca, più gusto.

Questa combinazione, una tradizione di club forti, figure carismatiche come Guglielmo che creavano comunità, e una soglia d’ingresso che separava chi ci credeva, ha generato personalità musicali forti e riconoscibili. Non è magia: è una cultura che ti educa, ti sfida e ti plasma. E tuttora, credo, quell’imprinting continua a fare la differenza.

A proposito di Guglielmo Mascio, per me da sempre considerato come il “David Mancuso d’Abruzzo” per come ha saputo creare comunità, atmosfera, visione. Qual è per te il suo contributo più grande alla scena abruzzese e al tuo percorso?

Guglielmo rappresenta il riferimento in come questo mestiere debba essere fatto. Pura ricerca, tecnica sublime e un istinto che ha sempre anticipato i tempi. È stato il primo a portare la nu-disco in Italia, molto prima che diventasse un linguaggio condiviso. E già nei primi anni 2000 proponeva set di obscure disco italiana quando praticamente nessuno guardava in quella direzione. Gli altri ci sono arrivati molto più tardi.

E quando la scena ha iniziato finalmente ad accorgersi di quelle sonorità, lui era già altrove. Ricordo perfettamente un periodo, intorno al 2010, in cui mi faceva ascoltare dei dischi funk nigeriani pazzeschi. Mi raccontava che aveva una persona sul posto, in Nigeria, a cui commissionava la ricerca di vinili rari (M: «confermo: lo stesso Guglielmo me lo raccontò dopo un DJ set all’Hotel Butterfly di Roma»).  Questo dice tutto sul suo approccio: non seguiva le tendenze, le anticipava, e quando diventavano tendenze, lui era già passato al livello successivo.

Lui è stato e lo è ancora una fonte di ispirazione enorme, insieme a Francisco, soprattutto nell’arte di mischiare generi molto diversi trovando sempre un filo conduttore. È la cosa più difficile in assoluto: creare libertà senza perdere identità. E Guglielmo l’ha sempre fatto con una naturalezza che pochi hanno. Il suo contributo alla scena abruzzese è immenso: ha formato il gusto di un’intera generazione e, nel mio caso, ha contribuito a definire il modo in cui ascolto e costruisco la musica.

Ci sono stati anni in cui Tipografia a Pescara era un luogo di culto. Lì avete costruito serate in cui i resident, voi, non avevano davvero nulla da invidiare alle guest. Che periodo è stato? E cosa ti ha insegnato quel laboratorio?

Tipografia è stata casa mia per dieci anni. Letteralmente. Era un vecchio capannone industriale dove un tempo c’era una tipografia: macchinari enormi ancora lì, immobili, troppo pesanti per essere rimossi. Alcuni amici lo avevano affittato come spazio per feste saltuarie, nulla di più. Ma l’energia che si era creata attorno a quel luogo era talmente forte che a un certo punto è stato naturale pensare di strutturarlo in modo più serio, di chiamare persone che sapessero trasformarlo in un vero club.

È così che sono entrati in gioco Guglielmo Mascio e Paolo Visci. In quel periodo io ero a Berlino per una breve esperienza, ma quando rientrai per le vacanze di Natale, Guglielmo mi propose di collaborare alla creazione di un party: Teenage from Mars. Uno spazio dove portare tutta la nostra ricerca musicale, senza paletti, senza regole, senza la necessità di piacere a qualcuno. Era uno spazio completamente democratico: venivano tutti, da ogni estrazione sociale, e quel mix rendeva la pista unica. Forse il posto più democratico che io abbia mai vissuto.

Erano anni in cui non eravamo ancora schiavi dei social, e quella libertà si sentiva. Tipografia era il luogo dove connetterci davvero gli uni agli altri. Ogni settimana era una festa, e ogni festa aveva una sceneggiatura diversa. Ci travestivamo quasi sempre, realizzavamo teaser promozionali totalmente no sense in un’epoca in cui YouTube era nato da pochissimo. C’era una sana follia creativa, fatta di giocosità e libertà.

Dopo un paio d’anni la nostra piccola rivoluzione aveva raggiunto un’eco internazionale: DJ da tutta Europa volevano venire a suonare lì. È stato il periodo più magico della mia vita in consolle. Non era solo un club: era un laboratorio, una comunità, un esperimento sociale e musicale. E tutto quello che sono oggi, inevitabilmente, passa da quei dieci anni.

Oggi che la tua estetica musicale è così riconoscibile, quale pensi sia il tuo vero “codice”? Il filo rosso che unisce tutte le tue produzioni, anche quelle più diverse?

Il mio codice musicale si costruisce su due elementi che per me devono convivere sempre: la ritmica e l’emotività. Ogni traccia nasce da questo equilibrio, da un groove che muove e da un sentimento che resta.

Per mantenere questa identità, utilizzo da anni più o meno lo stesso set di sintetizzatori e drum-machine dei primi anni ’80. Non per nostalgia, ma perché quelle macchine hanno un carattere che riconosco e che mi riconosce: le loro imperfezioni, il modo in cui rispondono, il loro respiro. Mi aiutano a dare continuità al mio linguaggio, a rendere i miei brani parte dello stesso universo sonoro anche quando cambiano le sfumature.

Un altro aspetto che per me è fondamentale è la melodia. Che sia un synth o una linea vocale, mi piace che ci sia sempre un elemento melodico che ti rimane già dal primo ascolto. Non deve essere per forza dominante, ma deve lasciare un’impronta, un segno. Quel dettaglio che ti fa riconoscere subito che sei dentro un brano mio.

Guardando al futuro di Mirella Records, dove vuoi spingerla? Quali territori sonori senti ancora inesplorati e pronti per essere raggiunti?

È una domanda che mi pongo spesso, perché il futuro di Mirella è qualcosa che voglio costruire con attenzione. Finora le cose sono nate in modo molto naturale: il catalogo conta solo sei uscite, ma già insieme tracciano un’identità precisa.

Quello che mi interessa è che Mirella resti un luogo di ricerca, un’etichetta che possa evolversi senza perdere la sua coerenza. Un esempio recente di questa direzione è “My Best Friend, il singolo uscito l’8 dicembre sotto lo pseudonimo CHOP, il progetto che condivido con Whodamanny. È una traccia che rappresenta bene ciò che immagino per il futuro: un suono personale, emotivo, che guarda avanti senza dimenticare da dove arriva.

Il futuro, per me, è continuare a esplorare. Tenere insieme memoria e innovazione, ma senza forzature. Ci sono ancora molti territori da toccare e, se Mirella avrà un ruolo nei prossimi anni, spero sia questo: un luogo libero, curioso, coraggioso. Un’etichetta che non insegue le tendenze, ma rimane fedele al proprio linguaggio anche quando il mondo cambia direzione.

Una domanda che faccio da amico, prima che da artista che ti intervista: di cosa sei più orgoglioso oggi? E cosa speri che la tua musica continui a dire, anche quando tu non parlerai più?

Di cosa sono più orgoglioso? Probabilmente di aver seguito un percorso evolutivo autentico: anni a mettere dischi, osservare, ascoltare, sbagliare e infine capire quale suono mi appartenesse veramente e fosse funzionale alla mia estetica in consolle.

E di conseguenza di aver costruito una casa per quella visione: Mirella è uno spazio pensato per far vivere idee senza compromessi, un luogo dove la mia estetica può raccontarsi libera da aspettative altrui. Questa libertà conquistata è il cuore del progetto.

Sapere di aver realizzato qualcosa che mi rappresenta fino in fondo, questo, oggi, è ciò che mi rende davvero orgoglioso. E se la mia musica dovesse continuare a parlare quando io non ci sarò più, spero che dica una cosa semplice: che la libertà creativa, perseguita senza compromessi, è la via più sincera per arrivare alla verità artistica.