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ZOD e Kuthi Jinani danno carica al pomeriggio MyZone a suon della loro miglior “Spiritual Global Bass”. Nell’identità di Sun Yufka, creatura combinata cui hanno dato vita a fine 2016, prendono lo spazio da protagonisti nel corrente appuntamento.

Nelle precedenti occasioni della rubrica si sono presentate svariate opportunità tese nel tendere omaggio ai corpi più disparati della disciplina elettronica: c’è di r&b e anima black, c’è di IDM e glitch, c’è una proposta di cantautorato combinata ad una forte contaminazione analogica, c’è ambient e chill e in più numerosi altri esempi di realtà a forma di crossover che vi restano solo da riscoprire. Quello che fino adesso è mancato all’appello tuttavia, è una nobile rappresentanza di una porzione musical-culturale di estrema radicazione nella consapevolezza collettiva; il caso Sun Yufka è il pretesto ideale per suggestionare le cronache di una forte “marea” stilistica che vanta una delle fan-base più accanite ed orgogliose, nell’accezione pienamente positiva della considerazione.
Certo, neanche il così serrato proud britannico si è potuto sancire negli anni una cassa impermeabile da quella che poi si è dimostrata la ricettività europea, gli Stati Uniti e la costa occidentale pacifica contestualmente hanno iniziato ad interagire con i rispettivi ruoli, ed è così che nel giro di qualche anno tutte le forme più pure hanno giocato ad accomodarsi l’una accanto all’altra – il che è assolutamente un bene! Ben vengano infatti sia i contagi (se operati con discrezione e soprattutto logica) come l’esaltazioni della matrici musicali originarie da cui poi tali ibridi conseguono naturalmente.

Ecco, “ibrido” è un termine fondamentale nella trattazione in sviluppo, poiché è nella connotazione stessa della parola, nella sua etimologia, che il progetto Sun Yufka trova  ragione – non certo per quella semplicistica derivazione per cui lui-più-l’altro-uguale-loro, questa è solo la più banale delle asserzione che potremmo fare in materia; in verità la questione del “chi collabori con chi” è rilevante solo in senso relativo: sono i background e i bagagli in spalla a caratterizzare un binomio come di questo tipo.
Con “Guyana Split” ad esempio – primo tesserino da visita del duo e pubblicato nell’Aprile di quest’anno – assistiamo da un lato, alla propensione più urban di ZOD, e dall’altro all’attitudine ambient/caotica di Kuthi Jinani. I due, in sinergia e nel rispetto delle proprie specifiche, distribuirono in quell’occasione un lavoro dall’alto contenuto sperimentale come in Italia non siamo proprio i primi a recepire. Ayeta e Macaw in tutta la loro vocazione tribal, suonano esattamente in onore di quell’allusione globalmente spirituale (cui fanno esplicito riferimento tra le informazione ufficiali) avendo congiunto in soli due brani tre diversi angoli di mondo, con tutto ciò che si riuscirebbe a contare nel mezzo.

Il 14 di questo mese invece è stato il turno di “Jua”, four-tracks rilasciato da Beat Machine Records, un lavoro che per le tracce passate in rassegna richiama una musicalità a tratti molto più occidentale. Il discorso vale specificatamente per Kambo e Anikula: la prima è un concentrato massimo tra grime, break e dnb – pennellata a stelle e strisce viene dipinta dalle parentesi “footworkiane”, batterie ultraveloci ed incalzanti infatti vengono spesso sostenute e/o alternate da un corpo di sonorità facilmente identificabile come Made In UK. La seconda invece, ci piace immaginarla come un’opera “ad arco” tra la traccia che segue e quella che precede; di tutto l’EP infatti, Batuda è forse quella più carica di contenuto esotico, vuoi per casse e batterie, vuoi per effetti e campione vocale, tornando ai ritmi sincopati giusto a metà del brano stesso in una transizione piuttosto netta e decisa.
Un salto di marcia dal genere tra la prima e la terza track, magari avrebbe deciso un cambio troppo impattante che male si sarebbe conciliato con l’esigenza di una più fluida progressione; il ruolo di collante tra le due è proprio nelle mani della mediana, poggiata discretamente a copertura nel mezzo delle sponde.

Per rompere il ghiaccio: immaginate che l’altro non possa leggere le vostre parole, quale sarebbe il primo pensiero che gli dedichereste?

Kuthi: “mortacci tua lucazod”

Zod: Giancarlo ti voglio bene però stai diventando troppo hipster (lol)

Adesso invece per rompervi le palle: quanto è al passo l’Italia con quel riferimento musicale di vostra professione? O meglio, non essendo nessuno dei generi elencati un prodotto di formazione autoctona, un prodotto per giunta molto più recente di quanto lo possano essere ad esempio altri generi del campo elettronico, patiamo in questo senso una sorta di gap evolutivo?

K: In realtà l’Italia non è così arretrata nell’ambito musicale a cui facciamo riferimento: la maggiore ispirazione è arrivata proprio da Clap!Clap!, ai cui live set abbiamo avuto più volte occasione di assistere e che mi hanno davvero spinto a voler dare una tale carica e calore alle produzioni. Di altri grandi nomi dell’ambito ce ne sono: Dj Khalab, Ckrono e Slesh, Populous, Capibara…forse a tutti loro manca però la componente footwork, che è un genere che in Italia ancora resta ancora abbastanza confinato a poche realtà.

Z: beh se parliamo del nostro genere, o meglio, della famiglia di generi che abbracciamo, sicuramente l’Italia non è al passo, o meglio il pubblico “mainstream” italiano non si identifica ancora ampiamente nei vari sottogeneri dell’elettronica che invece gira sia nei club che nei festival in altre zone d’Europa e di oltremare. Quindi sicuramente patiamo ancora il gap evolutivo, e anche vero però che ci sono realtà interessanti che si stanno consolidando nell’ambiente della musica “underground”, un altro fattore positivo che possiamo menzionare è stato l’aumento di festival di musica elettronica lungo tutto lo stivale nell’ultimo anno.

Fino a qualche tempo fa uno degli argomenti più caldi tra gli addetti di settore è stato l’infinita diatriba tra Overground vs Underground, una retoriche che col tempo – dopo aver consumato innumerevoli posizioni di dibattito – è andata gradualmente scemando senza effettivamente conservare alcunché di significativamente indelebile. Fondamentalmente, neanche si è ancora arrivati a stabilire un netto confine che decretasse l’area dell’uno e dell’altro. A livello opinionistico quanto vi ha toccato la questione?

K: Il confine tra underground e mainstream si muove con tale velocità nel mondo digitale che ha davvero poco senso provare ad inseguire queste definizioni. La scena underground si conserva ancora solo grazie a piccole realtà e collettivi di artisti, con le autoproduzioni e senza vincoli discografici, anche se tutto questo oggi è comunque migrato sul web, dove probabilmente continuerà a svilupparsi all’infinito portando avanti l’orizzonte di sperimentazione musicale.

Z: a me ha toccato parecchio dato che provengo da ambienti come centri sociali e party illegali, preferirei però non esprimermi in merito alla questione.

A prescindere delle esperienze musicali, dai generi e dai gusti più o meno ridondanti che vi potrebbero accomunare, da cosa vi sentite “umanamente” connessi l’uno con l’altro?

K: Indubbiamente siamo entrambe persone che vivono bene la convivialità, lo stare insieme e il condividere esperienze, sia in ambito umano che in ambito musicale. Nonostante la differenza di età e di esperienze siamo sempre riusciti a vivere il rapporto musicale con estrema collaboratività e voglia di imparare dalle nostre differenze.

Z: a parte la musica penso che un’altra cosa che ci ha connesso è stata la passione per i viaggi e i paesi tropicali. Io ho iniziato a viaggiare con gli amici e in seguito da solo già a 16/17 anni, prima in giro per l’Europa, anche per parecchi festival, in seguito fuori Europa. Anche Giancarlo ha viaggiato abbastanza nonostante la giovane età, infatti, nei nostri primi incontri di produzione e ricerca musicale, ci siam trovati subito nelle nostra visione urban-afro-tropicale che caratterizza Sun Yufka.

…e invece proprio in riferimento alla formazione che entrambi avete maturato, sotto quale aspetto si è arricchita una volta che il progetto Sun Yufka ha visto luce?

K: Diciamo che ho cominciato ad avvicinare il mio stile di produzione ad una forma più ritmica e dancefloor. L’aver sperimentato con sonorità etniche inoltre mi ha aperto un mondo di materiale sonoro a cui attingere e a cui fare riferimento sia per le ritmiche quanto per le culture musicali globali.

Z: penso che ognuno di noi abbia maturato qualche altra skill lavorando insieme, io per esempio avendo sempre prodotto musica Electro o techno in 4/4, con Sun Yufka ho maturato uno stile di produzione meno impostato e meno metrico rispetto a prima, ma più scomposto e pieno di svarioni.

Nel mare degli stili e delle influenze da cui provenite, con quale rigore procedente nel tentativo di dare ordine (ammesso che ne ricerchiate uno) al vostro progetto comune?

K: Sun Yufka è un progetto abbastanza disordinato e caotico, piuttosto cerchiamo di mediare le nostre influenze e convogliarle verso un prodotto funzionante.

Z: Sicuramente cerchiamo di seguire un minimo di ordine inizialmente, durante le sessioni di produzione. Di solito partiamo con la componente “808” quindi batterie trap o footwork (anche Jungle), nella seconda parte pensiamo all’elemento “ibrido” da inserire, quindi il sample di musica afro, piuttosto che di cumbia o di musica world in generale.

Se l’House Music è una questione di Spirito, Anima e Corpo come recita il sempreverde anthem di Eddie Amador, la vostra musica allo stesso modo è…

K: Bassi, Peroni e National Geographic.

Z: una questione di bassoni, viaggioni e… Svarioni!

[Nota di Kuthi e Zod: appare subito chiaro come viviamo diversamente il progetto…per questo le risposte sono spesso distanti. E’ anche questo il bello di Sun Yufka!]