Noémi Büchi, compositrice e sound designer svizzero‑francese arriva il 28 novembre, alla Parade Électronique al Teatro Arsenale di Milano. L’intervista.

Noémi Büchi, tra orchestrazioni liquide, ritmi irregolari e tessiture stratificate, si muove musicalmente nel confine tra concerti dal vivo, installazioni e sound art. Gli studi in Musicologia e Letteratura tedesca all’Università di Zurigo, hanno plasmato la sua formazione: dalla composizione elettroacustica alla ZHdK e la teoria musicale all’Università di Stoccolma, il suo campo di azione si estende tra ricerca accademica e sperimentazione sonora. Il suo rapporto con la tecnologia è rigoroso ma poetico: gli strumenti elettronici e digitali non sostituiscono la sua creatività, ma la amplificano, diventando estensioni del suo pensiero compositivo.

Nei suoi lavori, presentati in festival internazionali come Ars Electronica, MUTEK e L.E.V., ha reso il sound design linguaggio narrativo che interrogasse spazio, tempo e percezione. L’artista transalpina è inoltre attiva anche nella creazione di colonne sonore, installazioni, lavori per la danza e il teatro. Büchi ha appena pubblicato un nuovo singolo “I Was Almost There” che anticipa il suo prossimo album, pronto a esplorare nuove texture analogiche e stratificazioni elettroniche.

In questa intervista, prima del suo live al Teatro Arsenale, riflette sul presente e sulla memoria del suono, raccontandoci del suo processo creativo, il rapporto con la sound art e il design del suono, la tecnologia come strumento e il nuovo percorso discografico, alla ricerca di ciò che significa fare musica oggi. Buona lettura!

Noémi Büchi

Ciao Noémi, benvenuta. Sarai una delle artiste protagoniste del Parade Électronique di Milano. Che tipo di live hai immaginato per questa occasione speciale?

Per questa occasione sto preparando un set più improvvisato, composto da suoni molto densi, quasi drone, con transizioni lunghe tra i diversi momenti. Vorrei mantenere un processo di trasformazione fluido e lento, intenso ma allo stesso tempo sottile e materico. Gli elementi ritmici emergono più come energie pulsanti, come se le onde sonore stesse respirassero ed espandessero lo spazio.

In lavori come “Matière”, “Hyle” e “Matter”, esplori la materialità del suono, interrogando ciò che resta “tangibile” in un’epoca digitale in cui tutto sembra fluido e virtuale. Come definisci la sostanza del suono e quanto la sua percezione dipende dall’esperienza fisica dell’ascoltatore, più che da strutture concettuali o formali?

A mio avviso il suono è al tempo stesso un fenomeno materiale e immateriale. Ha un corpo, ma un corpo che si dissolve continuamente. Mi interessa questo paradosso: come qualcosa possa sembrare tangibile pur sfuggendo a ogni forma. In “Matière”, “Hyle” e “Matter” ho provato a trattare il suono come una sorta di sostanza vivente, qualcosa che si può modellare, piegare, comprimere, allungare, quasi come un materiale fisico, pur resistendo sempre a essere totalmente contenuto.La

La sostanza del suono risiede, credo, nella sua capacità di agire sul corpo, di muovere l’aria, di risuonare nello spazio, di vibrare dentro l’ascoltatore. La percezione diventa così un atto fisico: riguarda il modo in cui i nostri corpi ricevono e interpretano queste vibrazioni, come memoria, emozione e sensazione si sovrappongono. In questo senso il suono non è definito da strutture concettuali o formali; esiste nell’incontro, nella vibrazione condivisa tra il materiale e chi ascolta. In un mondo sempre più virtuale, ritengo essenziale tornare a questa dimensione incarnata dell’ascolto, a percepire di nuovo il suono come qualcosa che ci tocca letteralmente, che ci ricorda che anche noi siamo fatti di materia.

La distinzione tra musica e sound art è sempre più sfumata nella pratica contemporanea. Pensi che dissolvere queste etichette apra nuove possibilità critiche e interpretative per l’ascoltatore, o rischi invece di rendere il linguaggio sonoro più ambiguo e instabile, richiedendo una decodifica continua?

Credo che dissolvere i confini tra musica e sound art sia allo stesso tempo liberatorio e necessario. Queste categorie sono state utili a un certo punto, ma oggi risultano troppo strette. Non rispecchiano più la fluidità con cui creiamo o percepiamo il suono. Quando lavoro non penso in termini di “musica” o “sound art”; penso in termini di energia, texture, risonanza, movimento.Il

Il lavoro esiste in una zona intermedia, uno spazio ibrido dove materialità, percezione ed emozione si incontrano.E sinceramente, non credo che sappiamo davvero cosa significhi “musica”. È un concetto così soggettivo ed evolutivo. Per me ogni persona dovrebbe definirla attraverso il proprio ascolto, la propria sensibilità. Certo, quando sfumiamo i confini, tutto diventa anche più instabile. Senza definizioni chiare, l’ascoltatore deve impegnarsi di più, interpretare, sentire.Ma

Ma penso che sia proprio lì che l’ascolto diventa interessante. L’ambiguità apre nuovi livelli di significato e invita a un ascolto più profondo, meno legato a generi o strutture e più alla presenza, alla vibrazione, alla consapevolezza. In definitiva, sciogliere queste etichette permette al suono di recuperare il suo pieno potenziale espressivo: diventa un linguaggio vivo, instabile, aperto, in continua trasformazione.

Noémi Büchi

Hai descritto la tecnologia non come un elemento musicale, ma come uno strumento che amplifica le possibilità creative. Come l’imprevedibilità intrinseca dei processi digitali ti spinge a ripensare il concetto di composizione, confrontandoti con ciò che sfugge al controllo e richiede una risposta più intuitiva che tecnica?

Per me la tecnologia non è un elemento musicale in sé, ma un’estensione del pensiero, un medium che amplifica le possibilità. Mi permette di scolpire il suono nei minimi dettagli, ma allo stesso tempo mi ricorda costantemente i limiti del controllo. I processi digitali hanno comportamenti propri, una loro imprevedibilità, e a volte portano il lavoro in territori che non avrei potuto progettare consapevolmente.

Questa imprevedibilità destabilizza l’idea di composizione come atto puramente intenzionale e apre uno spazio all’intuizione, all’ascolto come gesto compositivo. Quando il sistema reagisce in modo inatteso — quando “si comporta male” — cerco di non correggerlo, ma di rispondergli, di instaurare un dialogo con ciò che mi sfugge. In questo senso, la composizione diventa qualcosa tra il sapere esattamente cosa si vuole, e padroneggiare gli strumenti, e il navigare dentro la loro autonomia. La tecnologia mette in luce la fragilità del controllo, ed è proprio lì che la creazione inizia a sentirsi viva e a volte imprevedibile.

Quando consideri un pezzo “finito”, quanto è importante il mix come strumento creativo più che come semplice fase tecnica? In che misura modellare il suono in fase di mix può trasformare non solo l’estetica ma anche la drammaturgia e il significato stesso della composizione?

Il mix non è ciò che definisce una composizione. L’essenza del lavoro sta nel suo primo respiro, nell’idea iniziale, nel momento in cui qualcosa inizia a risuonare. Lì c’è già la struttura emotiva e formale.La fase di mixaggio serve solo a potenziare ciò che c’è già; è un processo di chiarificazione, non di trasformazione. Certo, può rivelare alcune sfumature o enfatizzare determinate texture, ma non altera l’identità del pezzo.Lo

Lo vedo più come un lavoro scultoreo: affinare la superficie, bilanciare luce e densità, ma sempre al servizio dell’impulso originario. In questo senso il mix non è un atto creativo separato, ma un’estensione dell’ascolto.

In un panorama elettronico in cui ogni parametro può essere manipolato digitalmente, tu abbracci la limitazione. Come trasformi i vincoli in opportunità poetiche e concettuali? Puoi fare esempi concreti in cui una scelta apparentemente restrittiva ha portato a risultati imprevisti o illuminanti?

Ad esempio, a volte parto da due soli suoni e porto al limite le loro possibilità di manipolazione e trasformazione. Così facendo, emergono nuove texture, nuove armoniche, nuovi significati emotivi, non grazie all’abbondanza, ma all’esaurimento. Quando spingi un suono al suo limite, inizia a rivelare comportamenti inattesi e fragili imperfezioni.La limitazione diventa quindi un atto poetico. Non si tratta di ridurre l’espressione, ma di dare spazio a ciò che vuole apparire. Attraverso la restrizione posso instaurare un rapporto più intimo e organico con il materiale.

Noémi Büchi

Il tuo nuovo singolo, “I Was Almost There”, anticipa il tuo terzo album, in uscita a febbraio. Quali tensioni emotive, domande concettuali o esperimenti sonori emergono in questa traccia? E in che modo prefigura l’universo più ampio dell’album, incontrando o mettendo in discussione le aspettative dell’ascoltatore?

Penso sia importante che ogni ascoltatore trovi da sé le risposte a queste domande: vivere la musica senza troppe spiegazioni e proiettare su di essa le proprie memorie o emozioni.Quello che posso dire è che la ripetizione gioca un ruolo centrale in questo album. Mi interessa molto come i pattern ripetitivi possano creare una sorta di stato meditativo — un ascolto sospeso tra movimento e immobilità. Attraverso la ripetizione, i piccoli dettagli iniziano a cambiare, e la percezione diventa più fluida e interna.

Dal punto di vista sonoro, faccio spesso riferimento a suoni che mi ricordano l’infanzia, cose che sentivo nei videogiochi come Tetris, Pokémon, Final Fantasy o Zelda, mescolati a beat ripetitivi ispirati all’hip hop o al rap, e fusi con qualità orchestrali. È un dialogo tra nostalgia e astrazione, tra ruvidità e raffinatezza. Forse “I Was Almost There” apre proprio la porta su questo universo.


ENGLISH VERSION

Noémi Büchi, Swiss-French composer and sound designer, arrives on November 28 at Parade Électronique at Teatro Arsenale in Milan. Here is the interview.

Moving between liquid orchestrations, irregular rhythms, and layered textures, Büchi operates musically on the threshold between live performance, installation, and sound art. Her studies in Musicology and German Literature at the University of Zurich shaped her artistic foundation: from electroacoustic composition at ZHdK to music theory at the University of Stockholm, her work spans both academic research and sonic experimentation. Her relationship with technology is rigorous yet poetic; electronic and digital tools do not replace her creativity but amplify it, becoming extensions of her compositional thinking.

In her works, presented at international festivals such as Ars Electronica, MUTEK, and L.E.V., she has turned sound design into a narrative language that questions space, time, and perception. The transalpine artist is also active in creating film scores, installations, and works for dance and theater. Büchi has just released a new single, “I Was Almost There“, which anticipates her upcoming album, set to explore new analog textures and electronic stratifications.

In this interview, ahead of her live performance at Teatro Arsenale, she reflects on the present and the memory of sound, sharing insights into her creative process, her relationship with sound art and sound design, the role of technology as a tool, and her new discographic path in search of what it means to make music today. Enjoy the reading!

Noémi Büchi

Noémi, welcome. You will be one of the featured artists at Parade Électronique in Milan. What kind of live performance have you envisioned for this special occasion?

For this occasion, I’m planning to play a more improvisational set that consists of very dense, almost drone-like sounds, with long transitions between the different moments. I aim to maintain a fluid and slow process of transformation, intense yet subtle and textural. The rhythmic elements appear more as pulsating energies, as if the sound waves themselves were breathing and expanding.

In works like “Matière”, “Hyle”, and “Matter”, you explore the materiality of sound, questioning what remains “tangible” in a digital age where everything seems fluid and virtual. How do you define the substance of sound, and to what extent does its perception depend on the listener’s physical experience rather than on conceptual or formal structures?

For me, sound is both a material and an immaterial phenomenon. It has a body, but one that constantly dissolves. I’m interested in this paradox: how something can feel tangible while escaping form at every moment. In “Matière”, “Hyle”, and “Matter”, I tried to treat sound as a kind of living substance, something that can be shaped, folded, compressed, and stretched, almost like a physical material, yet it always resists being fully contained.

The substance of sound lies, I think, in its ability to affect the body, to move air, to resonate in space, to vibrate within the listener. Perception then becomes a physical act: it’s about how our bodies receive and interpret these vibrations, how memory, emotion, and sensation overlap. In that sense, sound isn’t defined by conceptual or formal structures; it exists in the encounter, in the shared vibration between material and listener. When everything around us becomes increasingly virtual, I find it essential to return to this embodied dimension of listening, to re-experience sound as something that literally touches us, that reminds us we are made of matter too.

The distinction between music and sound art is increasingly blurred in contemporary practice. Do you think dissolving these labels opens new critical and interpretive possibilities for listeners, or does it risk rendering the sonic language more ambiguous and unstable, demanding constant decoding?

I think dissolving the boundaries between music and sound art is both liberating and necessary. These categories were useful at a certain point, but today they feel too narrow. They don’t reflect the fluidity of how we create or perceive sound anymore. When I work, I don’t think in terms of “music” or “sound art”; I think in terms of energy, texture, resonance, and movement.

Noémi Büchi

The work exists somewhere in between, in a hybrid space where materiality, perception, and emotion meet.And honestly, I don’t think we really know what “music” truly means. It’s such a subjective, evolving notion. For me, each person should define what music is for themselves, through their own listening, their own sensibility.

Of course, when we blur these boundaries, things also become more unstable. Without clear definitions, the listener has to engage more actively, to interpret, to sense.But

I think that’s precisely where it becomes interesting. The ambiguity opens up new layers of meaning and invites a deeper form of listening, one that’s less about genre or structure, and more about presence, vibration, and awareness. Ultimately, dissolving these labels allows sound to regain its full expressive potential. It becomes a living language, unstable, open, and constantly transforming.

You’ve described technology not as a musical element, but as a tool that amplifies creative possibilities. How does the inherent unpredictability of digital processes push you to rethink the concept of composition, confronting what escapes control and requires an intuitive rather than technical response?

In my humble opinion, technology is not a musical element in itself, it’s an extension of thought, a medium that amplifies possibilities. It allows me to sculpt sound in microscopic detail, but at the same time, it constantly reminds me of the limits of control. Digital processes have their own behaviors, their own unpredictability, and sometimes they lead the work into territories I could never have consciously designed.That unpredictability destabilizes the notion of composition as a purely intentional act and opens space for intuition, for listening as a compositional gesture in itself. When the system reacts in unexpected ways, when it “misbehaves”, I try not to correct it, but to respond to it, to enter into a dialogue with what escapes me.In this sense, composition becomes something between knowing exactly what you want, and mastering the tools, and navigating through their autonomy. Technology exposes the fragility of control and that’s where creation begins to feel alive and sometimes unpredictable.

When you consider a piece “finished,” how important is mixing as a creative tool rather than a mere technical stage? To what extent can shaping the sound in the mix transform not only the aesthetic but also the dramaturgy and meaning of the composition itself?

According to me, mixing is not what defines a composition. The essence of the work lies in its first breath, that initial idea, the moment where something starts to resonate. That’s where the emotional and structural foundation is already contained.The mixing stage only enhances what is already there; it’s a process of clarification rather than transformation. Of course, it can reveal certain nuances or emphasize particular textures, but it doesn’t change the identity of the piece. I see it more as a sculptural process, refining the surface, balancing light and density, but always in service of the original impulse. In that sense, mixing is not a separate creative act, but an extension of listening.

In an electronic landscape where every parameter can be digitally manipulated, you embrace limitation. How do you transform constraints into poetic and conceptual opportunities, and can you give concrete examples where an apparently restrictive choice led to unexpected or illuminating musical results?

For example, I sometimes start with only two sounds and go to the limits of their manipulation and transformation. By doing so, new textures, harmonics, and emotional meanings begin to emerge, not from abundance, but from exhaustion. When you push a sound to its edge, it starts to reveal unexpected behaviors and fragile imperfections.So, limitation becomes a poetic act. It’s not about reducing expression, but about giving space to what wants to appear. Through restriction, I can reach a more intimate and organic relation with the material.

Your new single, “I Was Almost There”, anticipates your third album, set for release in February. What emotional tensions, conceptual questions, or sonic experiments emerge in this track, and how does it prefigure the broader universe of the album, either meeting or challenging listeners’ expectations?


I think it’s important that each listener finds their own answers to these questions. To experience the music without too much explanation, and to project their own memories or emotions onto it.What I can say is that repetition plays a central role in this album. I’m very interested in how repetitive patterns can create a kind of meditative state, a listening experience that feels suspended between movement and stillness.Through

Through repetition, small details start to shift, and perception becomes more fluid and internal.Sonically, I often refer to sounds that remind me of my childhood, things I heard in video games like Tetris, Pokémon, Final Fantasy or Zelda, mixed with repetitive beats inspired by hip hop or rap, and merged with orchestral qualities. It’s a dialogue between nostalgia and abstraction, between rawness and refinement. So perhaps the track “I Was Almost There” opens a door into that universe.