C’è un nuovo titolo da segnare nell’agenda di chi vive la club culture come atto politico. “If These Walls Could Talk”, il documentario che ripercorre quindici anni di evoluzione del Club Guesthouse, è finalmente disponibile, e non poteva che essere un’opera che riflette la natura del luogo che ritrae: silenziosamente influente.
Guesthouse, spesso definito “il Berghain di Bucarest… solo un po’ meno kinky”, è uno di quei luoghi che non hanno bisogno di autopromozione. È sempre stato il dancefloor a parlare per lui: un organismo collettivo, elastico, disciplinato, in cui il confine tra DJ e pubblico si scioglie in una grammatica condivisa di respiro, tempo e intensità.
Il documentario indaga proprio questa alchimia, mescolando materiali d’archivio inediti a conversazioni intime con chi ha costruito, mattoncino dopo mattoncino, la mitologia Guesthouse. La narrazione parte da lì, da quella piccola casa su Traian 42. Entrarci significava essere iniziati a una comunità sotterranea, un luogo dove l’accesso era una sorta di rito di passaggio e dove la musica non era intrattenimento ma una lingua madre.
Poi i traslochi, gli spazi più grandi, le metamorfosi architettoniche, fino alla dimora attuale a Timpuri Noi.In ogni fase, l’essenza rimane la stessa: extended hours, un sistema sonoro calibrato al millimetro, una programmazione che non ha mai inseguito trend ma li ha generati, un dancefloor che non si fotografa e non si mostra, si vive.
Il film dà spazio ai protagonisti che hanno contribuito alla crescita del club: Priku, Cap, Gojnea, Herodot, Edward e il team fondatore. Artisti e artigiani della notte che rivelano con lucidità il lavoro quasi monastico dietro ogni dettaglio: l’acustica, la progettazione spaziale, le mappature visive, l’architettura dell’esperienza.Sono gli elementi che i dancer percepiscono come vibrazione o atmosfera, senza poterli nominare.

Guesthouse, invece, li ha sempre nominati, studiati, cesellati, trasformandoli in un marchio di fabbrica esportato ben oltre i confini nazionali.
Negli anni, Guesthouse è diventato un shorthand culturale: per molti viaggiatori, rappresenta “la Romania nuova”, un paese dove l’artigianalità locale incontra lo sguardo internazionale, e dove l’inclusività non è un manifesto ma un comportamento naturale. Un luogo che non chiede attenzione, non posa, non documenta: semplicemente accade, e nel farlo si riflette ovunque.
“If These Walls Could Talk” cattura tutto questo: fragilità e resistenza, traslochi e rinascite, pandemia e ostinazione, precisione e caos controllato. Ma soprattutto restituisce la verità che i regulars hanno sempre conosciuto: clubbing, qui, è un atto comunitario.È riunirsi. Trasformarsi insieme. Resettare gli orologi interni, sincronizzarsi con chi ci sta accanto, riconoscersi in un buio che non isola ma unisce. Guardalo qui sotto
Il documentario non è soltanto il racconto di un club: è la testimonianza di come uno spazio possa ridefinire una scena, segnare una generazione e, soprattutto, mantenere intatta la propria anima pur cambiando forma mille volte.In fondo, se queste mura potessero parlare, direbbero esattamente questo: la musica è solo l’inizio. Il resto lo fa la comunità.
