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Lele Sacchi è pronto a lanciarsi in una nuova avventura discografica: Stolen Goods è la nuova label dello storico resident dei Magazzini Generali di Milano, aperta in collaborazione con Asian Fake.

Lele Sacchi necessita di poche presentazioni. Si avvicina alla musica sin da giovanissimo, grazie alla sua passione per il Punk: un genere ribelle e rivoluzionario che caratterizzerà, fin dai primi passi, la sua forte e spiccata personalità artistica. Non basta il talento, oggi come allora, per poter superare i numerosi ostacoli che si presentano dinanzi un percorso lungo ed estenuante come quello della musica. Occorrono carattere, audacia e determinazione. Valori che, a quanto pare, non sono mancati in un “artigiano” pronto a lanciarsi costantemente in nuove ed entusiasmanti sfide con se stesso. Lele Sacchi è un DJ, o almeno è così che ama definirsi, ha mixato dischi per anni in importanti club nazionali e internazionali, lavora in Radio, ma ha anche tentato di comunicare il suo messaggio tramite quella strana e ormai banale scatola mediatica chiamata televisione; ha scritto articoli e si è occupato di sound design per aziende presenti nel mondo della moda. Insomma, Lele Sacchi è semplicemente un cultore della musica.

Rappresenta un punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere una carriera di un certo livello nel mondo della notte. Un artista in cui scorre ancora quel raro sangue “old school“, ma che allo stesso tempo riesce ad essere moderno, grazie alla sua naturale inclinazione per le nuove correnti artistiche e sonore. Perché, come egli stesso afferma, non bisogna vivere nei tormenti e di rimpianti “passati”, ma nella speranza del presente.

Oggi, Lele Sacchi è qui con noi.

Ciao e benvenuto su Parkett. Sei un personaggio molto influente della scena musicale italiana, e questo è dovuto oltre che al talento anche al tuo tipo di carattere: sei una persona che, come racconti tu stesso, non ha avuto paura di lanciarsi e addentrarsi sempre in nuove realtà. Quindi ti chiedo, oggi, all’inizio di un tuo nuovo percorso artistico, quali sono le emozioni che provi? Senti ancora la scintilla che scocca come se fosse “la prima volta”?

Ciao, grazie. Sì, guarda un nuovo inizio è rappresentato da questo progetto discografico Stolen Goods, perché effettivamente è stato anche poi inatteso, nel senso che io in questo momento non avrei mai dato vita ad una nuova etichetta discografica da solo, soprattutto vedendo tanti amici e le loro difficoltà che stanno vivendo con le piccole label. È un impegno e, senza una struttura solida alle spalle, nonostante le grandi qualità artistiche di una proposta, mancherebbe tutto il resto. Invece, è capitato tutto un po’ per caso, in una serata con Filippo Palazzo – uno dei soci di Asian Fake – mentre stavamo parlando di un altro progetto artistico che dovrei realizzare per loro.  Mi è stato detto: “Perché non fai un’etichetta per noi?” e ho detto subito di sì, conoscendo appunto come loro sono strutturati. Tra l’altro è uno staff “giovane”, quindi comunque possiamo compensarci e unire idee innovative con la mia esperienza. Le due cose insieme mi hanno spinto a farlo e sicuramente, come hai detto tu, è scoccata la scintilla. Io avevo già lavorato in altre etichette discografiche, ma era un mercato diverso, sembra un secolo fa ormai rispetto al mondo attuale. Quindi sì, questa nuova partenza la trovo anche eccitante.

Mi stai dicendo dunque che, prima di quell’incontro, l’idea di voler creare una nuova label non ti aveva mai nemmeno sfiorato la mente?

No, diciamo che come ho detto non stavo cercando dei partner; non era nei miei piani ripartire con un’etichetta discografica, nonostante tante volte si sia discusso con altri produttori e amici di ciò. Mi dicevano: “Con i contatti che hai dovresti aprire una nuova etichetta”. Però sinceramente l’avrei fatto solo a queste condizioni, cioè quelle di avere comunque di fianco dei partner e una struttura così capace. Non so come dire, non stavo bussando a delle porte. Semplicemente, è capitato che ad una cena venisse fuori questa proposta e mi sono sentito al posto giusto nel momento giusto.

Le cose che accadono all’improvviso risultano essere sempre le migliori. È uscito il vostro primo album, Volume Zero, e tu sei un grande amante di questo formato. Ti piace ascoltarli dall’inizio alla fine, seguendo il flusso sonoro, cercando un senso al tutto e, perché no, anche delle hit al loro interno che possano scuotere il mercato. Se volessi descriverla tu questa prima release targata Stolen Goods, oggettivamente parlando – e dopo capirai il perché io stia utilizzando questo termine, come lo faresti?

Voleva essere un biglietto da visita, potevamo anche iniziare con dei singoli, sai, il mercato della dance è basato su quelli, sono ideali per i dj. Gli album sono però comunque fondamentali nella musica elettronica. Però la nostra idea era quella comunque di posizionarci inizialmente come etichetta solidamente dance, cioè per dj underground, musica da club per clubber. Potevamo quindi cominciare con i singoli, però chiaramente cosa succede: che la prima uscita ti identifica con quel primo sound e magari il pubblico dopo si aspetta sempre quello. Allora ho detto: “Cominciamo subito con uno roaster di artisti italiani, che ci saranno vicini nel percorso e mettiamo giù un album”, così si potranno ascoltare insieme ben 12 brani. Sono anche molto diversi fra loro, però c’è una sorta di fil rouge che li unisce. Tutti i producer selezionati sono inoltre dj con una grande capacità in console. Le tracce sono state pensate per il dj set, insomma. Hanno un suono concreto, solido, abbastanza spesso. Volevo che Stolen Goods si distinguesse, se vedi anche il profilo grafico, da tutto il resto delle label italiane. Vorrei apparisse più come un’etichetta inglese, ecco. Anche perché ho tanti amici italiani che già fanno bene questo lavoro, vedi ad esempio i Nu Genea o Marvin & Guy, con il loro sound retrò. Si identificano già con un sound italiano, io volevo qualcosa che si potesse identificare più con un sound globale, con dei richiami agli anni ’90, però anche contemporaneo, forte.

Hai cercato dunque di avvicinarti al tuo amato sound londinese, quello che tanto ha caratterizzato la tua carriera artistica…

Sì, è così. Tutti gli artisti presenti in questo album si esprimono un po’ attraverso queste sonorità che tanto mi piacciono.

In passato, hai dichiarato che per te la qualità è oggettiva, un po’ come la bellezza per Kant. È un qualcosa di puro, che deve necessariamente piacere. Cosa per te non è oggettivamente bello o di qualità nell’industria musicale contemporanea?

Guarda, non si può fare una lista delle canzoni brutte, anche perché sono tantissime e staremmo qua fino a domani mattina. La qualità è oggettiva, però non tutti hanno l’orecchio per captarla: è una questione di formazione, di studio, di esperienza. Magari non si riesce a cogliere subito la qualità e ci si adegua a quello che si sente in giro. Certamente ci vorrebbe un poco più di impegno da parte di chi spinge la musica: i media, ma anche i dj; influencer, giornali, radio, web radio. Mi sembra che osino poco nello spingere la qualità. Capisco che sia comodo, per chi ha poco tempo, ascoltare una playlist già fatta su Spotify. Però, se si trovasse qualcosa di migliore, si ascolterebbe quello. E chi lavora in mezzo dovrebbe occuparsene. Ci vorrebbe più coraggio. Ecco, questo è il problema della discografia attuale. Bisognerebbe scegliere musica di qualità, così che anche chi non ha studiato, o non ha tempo, possa avere la possibilità di ascoltare roba diversa e non pessima, come quella che gira adesso.

Occorrerebbe maggiore audacia da parte di tutti, altrimenti finiremo per ascoltare sempre la stessa roba. Aggiungo: al giorno d’oggi manca una critica obiettiva forte nella musica elettronica. Quindi cerchiamo di smuovere un po’ le acque. C’è qualcuno che ha attirato particolarmente la tua attenzione, qualche dj, o qualche nuova realtà italiana o credi che ci sia ancora tanto su cui lavorare?

Poter produrre digitalmente ormai con poca spesa, e anche un po’ grazie all’aiuto dei tutorial, rappresenta una grande opportunità. Tutto ciò dà a tanti la possibilità di potersi esprimere e questo è sia un bene, chiaramente, che un male. Male nel senso che gira troppa musica e non di un certo livello. Però, dall’altro lato, è vero che si ricevono molti demo di qualità, anche da ragazzi molto giovani, ragazzi e ragazze, e per lo più sconosciuti. Perché comunque hanno accesso alla produzione. Sulle realtà, invece, posso dire che chiaramente creare situazioni nuove, in questo momento, non è semplice. Mi rendo conto di quanto tempo occorra per un ragazzo mettere in piedi una situazione di successo, anche perché un po’ si è ristretto in qualche modo il mercato, nel senso che i numeri delle persone che frequentano il club sono più bassi di quelli degli anni ’90, primi 2000. Quindi chi era un professionista è ancora sulla scena e magari si riduce la possibilità per gli emergenti di poter “uscire fuori”, però sicuramente c’è una scena italiana nuova di ragazzi che sono, per esempio, molto appassionati di musica House di qualità. Anche se fa parte un po’ del marketing, oggi, mostrarsi in un certo modo e farsi vedere col vinile. Bisogna fare ricerca e ci sono molti ventenni che lo fanno, quindi è un momento comunque positivo. Adesso non posso fare nomi, altrimenti rischio di fare un casino (ride), perché sicuro dimentico di citare qualcuno.

Oggi, però, ci son tanti giovani che sembrano meno ribelli di quelli di una volta, quelli degli anni ’70 e ’80, quelli del “non me ne frega nulla di quello che dici, faccio come mi pare”. Tu hai mosso i tuoi primi passi nel mondo musicale grazie al Punk, immagino avessi quindi una gran voglia – rivoluzionaria – di spaccare un po’ tutto. Quanto ti senti diverso dai ragazzi di oggi? 

Guarda, non voglio generalizzare. Conosco ragazzi giovanissimi che passano tutta la giornata a suonare musica house e ne sanno tantissimo. Però diciamo che, quando ho iniziato io, usavano la musica semplicemente per comunicare e poi arrivare al successo, anche se c’era chi voleva diventare solo ricco o famoso. Ci sono sempre stati questi personaggi qui, e forse sono di più adesso: il numero si è moltiplicato con i social network, dove chiaramente l’immagine conta più della musica. Quindi ci sono forse un po’ di giovani che approcciano al mondo musicale con l’idea semplicemente di voler diventare famosi. Quindi non per esprimere qualcosa, non per un amore estremo che ha mosso quasi tutti noi (quelli di una volta). Noi siamo stati mossi dall’amore per la musica. Io faccio musica perché mi fa stare bene. È lì che finisce per rappresentare veramente quello che sei. Oggi, magari cercano solo più follower. E comunque, se non ascolti buona musica, non puoi fare buona musica.

Dovremmo tutti imparare ad ascoltare un po’ di più, per poter conoscere anche meglio noi stessi…

Sì, c’è un appiattimento anche, come dicevi tu prima, della questione ribellione. Fondamentalmente chi faceva musica veniva considerato sempre un po’ “diverso”. Anche se non portava con sé chissà quali messaggi rivoluzionari, era comunque considerato un artista, un ribelle. Adesso vedo invece che i temi e i messaggi sono veramente molto mainstream, adeguati a quello che poi è l’esempio del successo televisivo, quello banale, dell’essere ricchi.

Lele Sacchi

Come dicevi prima, però, esistono anche tante importanti realtà e vorrei citarne una in particolare, anche se internazionale: Sónar festival, un’esperienza audiovisiva incredibile, che ho avuto il piacere di vivere quest’anno come addetto ai lavori. Un’intera città si esprime attraverso un unico linguaggio: quello della musica. Sarà possibile vedere mai un Sónar in Italia? C’è già secondo te qualche festival nazionale che credi possa avvicinarsi a questo grande evento?

Allora, bei festival in Italia ci sono, magari un po’ più piccoli. Tranne qualcuno, come ad esempio il Kappa FuturFestival, che sicuramente fa gli stessi numeri di quel tipo di festival in giro per il mondo. Altri di qualità sono Jazz:Re:Found, C2C, VIVA! e molti altri. Sónar ha un’unicità, quella di aver cominciato prima di tutti, con un messaggio centrato: la musica elettronica non era solo quella dei rave, ma anche quella dei grandi palchi o quella sperimentale di altissimo livello. Il tutto si mischiava con le arti digitali e le arti elettroniche che iniziavano a diffondersi negli anni ’90. Sónar è stato il primo festival con un profilo culturale alto, che ha unito due anime – potevi ascoltare sia musica sperimentale che Carl Cox. È stato parte di una grande rivoluzione culturale e sociale. Hanno iniziato in quel momento, a Barcellona, a Giugno, e hanno richiamato così persone “simili” da tutto il mondo e, da quel momento, non hanno più smesso. Quindi sono ancora lì, con il loro messaggio, dopo quasi 30 anni.

La città di Barcellona ha sicuramente aiutato a rendere possibile tutto ciò e, ancora oggi, è parte di integrante della scena musicale elettronica di un certo livello. Tu hai sempre amato invece Londra, per le sue sfumature drum and bass che ti hanno scosso fin dal primo ascolto. Com’è oggi Londra? C’è qualche altra città che, grazie alla sua personalità e cultura, è divenuta molto importante per te?

Guarda a Londra attualmente ci vado poco, purtroppo. Sono cresciuto lì culturalmente, ci sono andato per la prima volta nel ’93 e da quel momento è stato amore a prima vista. Andavo svariate volte l’anno, dato che lavoravo nella distribuzione discografica e avevo a che fare con diverse etichette inglesi. Tante volte andavo anche per suonare: è una città che ho vissuto moltissimo, ha formato il mio background musicale. Negli ultimi anni, sono sicuramente andato di più a Berlino, parlando di città musicale. Londra è un po’ cambiata, anche se, assieme a Los Angeles e New York, è ancora la capitale dell’intrattenimento. È stata il centro della musica underground per tanti anni, era economica e ha dato tante possibilità a molti musicisti e artisti. Ecco, c’è stato un aumento dei costi colossale, negli ultimi 25 anni. Questo ha spinto a far andare via tante persone, che non abitano più lì per questo. Continuo ad amarla, però, se avessi vent’anni adesso, andrei sicuramente a Berlino.

A Berlino hai suonato in diversi club. Qual è il tuo preferito?

Attualmente, sicuramente il Sisyphos: un posto di quelli magici che non annuncia la line up. Son cose che possono fare solo loro. Come la questione del divieto dei video o delle foto. Delle volte, ci si prova anche qui a farlo, ma sono delle specificità che funzionano in quella città, con quei numeri. Intanto, non fanno serate tutti i weekend, ma è una specie di villaggio delle meraviglie che apre il Venerdì sera e chiude il Lunedì pomeriggio. Gli eventi non vengono pubblicizzati, non sai chi suonerà, ma sei consapevole soltanto che ascolterai della buona techno o house che sia. E che ci saranno dj di altissimo livello. Chiaramente in Italia non si potrebbe fare, non puoi non annunciare gli artisti che suoneranno. Lì c’è un’attitudine molto diversa, quella dello scoprire ciò che sarà. Ho suonato, anni fa, al Panorama Bar: esperienza unica. Non è cambiato molto da allora. C’è anche questo, la città mantiene fede ai suoi concetti. Son tornato in club come il Watergate, il Suicide Circus e ho visto che non sono cambiati. Questo è bello. Sono aumentati un poco i prezzi, ma sono comunque abbordabili, la città è rimasta economica e i suoi valori sono abbastanza in controtendenza rispetto a quelli globali.

È importante cercare di rimanere il più originale possibile, senza dover necessariamente emulare il prossimo…

Ogni posto ha una storia, quindi è sbagliato cercare di replicare pedissequamente quello che c’è in un altro posto. Non si può pensare di voler proporre a Milano ciò che hai vissuto in un club di Berlino, perché sarebbe diverso. Puoi però prendere ispirazione e imparare dalla loro gestione o attitudine. Questo è importante. Perché è giusto tornare a casa con delle nuove idee. Però, ad esempio, lì a Berlino le persone cercano un contesto Fetish e magari a Roma no.

Ecco, parlando di Roma e tornando dunque alla nostra scena musicale: quanto manca un rivoluzionario come Claudio Coccoluto? 

Claudio manca tutti i giorni. Manca come persona, come uomo, come amico, come mentore. È  una persona che mi ha ispirato, insieme ad altre. Però con lui si era creato ovviamente un rapporto particolare, cioè non solo era un artista che io vedevo come un esempio da seguire, ma è stato un amico che mi ha consigliato e supportato. Era senza peli sulla lingua, diceva sempre in pubblico quello che pensava, piacesse o meno. Aveva un’opinione molto forte e ha ispirato tante persone. Noi, che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, dobbiamo portare avanti i suoi messaggi, raccontarli e rinnovarli sia nel presente che nel futuro.

Insomma, rappresentava quella critica che, oggi, viene a mancare…

Esatto, lui parlava dalla consolle. Sai che cos’è che funzionava davvero con Claudio? La critica la possono fare in tanti, anche magari persone che hanno le loro buone idee, ma la questione è che lui, quando si metteva dietro i piatti, spaccava il culo a tutti. Il discorso è: bisogna avere l’autorevolezza per poter parlare e lui l’aveva. Claudio sapeva sia suonare che produrre musica dance, quasi meglio di tutti gli altri. Quindi è chiaro che, se apre bocca una persona così, dici: “Ok, posso essere d’accordo o meno, ma so che sta parlando uno che sa quel che fa”. Ci sono persone che magari dicono anche cose corrette, ma se non hai quel peso lì, alla fine chi se ne frega…

Se solo le persone potessero ancora ascoltarlo…

Sì. Lui con i fatti ha dimostrato che si poteva fare musica di qualità anche per un pubblico di massa. Dirlo e non farlo, non vale. Lui lo diceva. E lo faceva. Ho vissuto tante situazioni assieme a lui e ho visto quanta grande empatia aveva: riusciva sempre a trascinare il pubblico con sé, con una classe senza precedenti.

Se potessi tornare indietro, c’è qualcosa che cambieresti del tuo passato? 

Guarda ho capito che è inutile pensare troppo al passato e sentirsi in colpa per delle cose accadute. In realtà io sono molto felice. Sai, non fa bene a se stessi recriminare. Va bene analizzare, perché comunque è importante imparare dai propri errori. Questo è giusto, non bisogna dimenticarsene, anche perché non devi avere l’arroganza di pensare di aver fatto tutto in maniera giusta. Però inutile rammaricarsi troppo. Certamente è più utile confrontarsi col presente e cercare di valorizzare quei momenti lì, fondamentali per la tua carriera.

Hai lavorato come resident dei Magazzini Generali e in tantissimi altri club come il Tunnel, nelle radio e anche in televisione. Dove pensi di essere riuscito ad esprimere al meglio il tuo messaggio?

Diciamo che mi sento un DJ. So declinare questa cosa in diversi campi, ma diciamo che la radio è sempre stato un territorio fertile. A parte che termine dj nasce proprio in radio quindi figurati…Però mi considero un DJ che mette dischi davanti al pubblico. Devi farlo ballare ed emozionare. È un’arte anche quello, ed è sottovalutata. Suonare nel club è ciò che mi fa sentire vivo e mi emoziona, mi dà ansia, perché quella poi c’è sempre in questi contesti. A volte, non sai che fare o non sai come le persone reagiranno. Ho vissuto anche esperienze televisive, ho scritto un libro. Però io amo fare ricerca di musica, cercare di capire i suoni, legarli fra loro e proporli alla gente. Mi piace tantissimo ricercare e scoprire qualcosa del passato, come la musica popolare.

Quindi son tutte esperienze che hanno fatto da ponte al tuo essere DJ, che è ciò che veramente ti emoziona ancora oggi…

Sì, parte da lì. Quello rimarrà, potrò anche provare in futuro a fare pochissime date nel club, ma è quello che mi ha formato. Il mio spirito è quello. Io sarò sempre un DJ.

Abbiamo detto che è inutile pensare troppo al passato. Cosa ti aspetti nel futuro di Lele Sacchi?

Dato che abbiamo iniziato questa intervista parlando dell’etichetta, io spero che Stolen Goods avrà il giusto successo e i giusti riconoscimenti. Vorrei avere la soddisfazione di aver potuto creare una cosa nuova che serve anche gli altri. Vorrei coinvolgere tante persone, come detto, abbiamo lavorato tanto anche sulla grafica e ciò mi rende molto fiero. Un progetto discografico deve rendere felice anche gli artisti che ci sono sopra, deve rappresentare un aiuto per loro, si devono poter esprimere. Mi farebbe molto piacere anche continuare a fare radio, è un’esperienza di studio o di racconto che si può fare per sempre. Ecco, il dj ad esempio, per farlo devi avere il fisico, magari a 70 anni non lo fai più. Anche se poi ci sono Ralf e Carl Cox che sono ancora in formissima a più di 60 anni. Spero di essere come loro (ride). Vorrei poter continuare a comunicare musica, in un modo o nell’altro, in qualsiasi forma. Vorrei poter rendere felici, incuriosite, interessate le persone. Quello poi è il compito del DJ: far scoprire nuove realtà.

È stato un piacere poterti intervistare. Grazie per essere stato con noi. 

Piacere mio. Abbiamo “toccato” tante questioni importanti. Ci vediamo presto in giro.