Progressive: un mondo che continua a vivere (e alla grande)
C’è un mondo, quello della progressive, che non possiamo dimenticare o addirittura ignorare. La progressive degli anni ’90 non ha nulla a che vedere con le sfumature dei sottogeneri odierni eppure, nella sua essenza, rimane un territorio a sé. Non era house, non era techno, non era trance: era tutto.
Era un mondo fatto di sfumature, di caratteristiche non sempre facili da definire, ma che, ascolto dopo ascolto, diventavano riconoscibili come parte di un linguaggio comune: quello della progressive.Va anche detto che la progressive dei club e dei rave degli anni ’90 era una realtà molto più dura, frenetica, dritta e innovativa.Gli
Gli artisti che citiamo in questo articolo, quelli che, tra la fine dei ’90 e i primi anni 2000, hanno inciso compilation leggendarie e definito uno stile, rappresentano già uno step successivo rispetto a quell’epoca. Avevano preso quell’energia iniziale e l’avevano fatta evolvere, arricchendola con nuove contaminazioni, esplorando mondi sonori diversi, pur restando sempre legati alle radici di ciò che significava essere progressive.
Non è un caso che, pensando a questo universo, vengano subito in mente figure come Sasha, Hernán Cattáneo, John Digweed, Paul Oakenfold, Nick Warren, Dave Seaman, Danny Howells, Sander Kleinenberg, Anthony Pappa, Darren Emerson, James Zabiela, Deep Dish, Leftfield, Hybrid, solo per citarne alcuni.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché la progressive è stata ed è ancora una comunità sonora vastissima, fatta di artisti che hanno spinto sempre un passo più in là i confini del dancefloor. Per me, Sasha è stato ed è il Kubrick della musica progressive: ogni set, ogni compilation, una regia totale, un racconto che sorprendeva e innovava con la stessa precisione con cui il maestro del cinema plasmava le sue opere.E
E la stessa sensazione l’abbiamo vissuta con tanti altri artisti di questo filone, capaci di trasformare la musica elettronica in un’esperienza totale. Molti di questi percorsi si sono cristallizzati nelle storiche compilation di Global Underground, che hanno rappresentato per un’intera generazione un punto di riferimento. Ricordo ancora quando, con gli amici, ci caricavamo in macchina, girando per la provincia abruzzese e ascoltando per ore quelle compilation: ogni volta era un viaggio musicale.
C’era lo stupore di scoprire come un artista riuscisse a passare da un brano breakbeat a uno più house, hard house, progressive, ambient, fino a innesti rock, senza perdere il filo della narrazione. Compilation come “Toronto #025” di Deep Dish, “Hong Kong” di John Digweed o “Involver” (in tutte le sue edizioni) firmate da Sasha erano esperienze sonore che non solo emozionavano, ma insegnavano a chi, come noi, cominciava a mixare e collezionare dischi. La forza di questi artisti era (ed è ancora) la capacità di rendere ogni set un racconto, un viaggio che sorprendeva sempre con qualche trovata inaspettata. Non si trattava solo di ascoltare musica, ma di entrare in un mondo che ti lasciava addosso la sensazione di aver vissuto qualcosa di irripetibile.

Oggi, ad esempio, un artista come Lee Burridge, con la sua etichetta All Day I Dream, viene spesso associato al movimento Organic House, eppure è evidente come quel linguaggio, pur con le sue evoluzioni, abbia radici e DNA che lo ricollegano alla progressive. Lo stesso discorso vale per tanti altri interpreti di questo suono, che, nonostante i cambiamenti del mercato musicale, continuano a portare avanti una visione coerente.
Esperienze come quella che abbiamo vissuto con Sasha e John Digweed al Kappa FuturFestival dimostrano che anche in Italia, quando si osa, il pubblico risponde. Non si tratta solo di nostalgia, ma della conferma che c’è ancora spazio per certe sonorità, a patto di saperle proporre con intelligenza.Il problema, semmai, è un altro: sappiamo bene che il mercato dell’intrattenimento è saturo. Nascono festival in continuazione e, anche con line-up mainstream, non sempre l’evento “riesce con il buco”. I costi per ingaggiare gli artisti sono alti, spesso insostenibili, e quando si parla di nomi meno conosciuti dai giovanissimi il rischio di un flop sembra raddoppiare. Sono considerazioni giuste, reali, già affrontate in diverse circostanze.
Eppure spesso le direzioni artistiche considerano questo sound come “vecchi”. Non per anagrafe, ma come tipo di suono e di intrattenimento. Davvero è così? O è solo una scusa per non ammettere che manca il coraggio di investire su proposte diverse, non immediatamente commerciali e non facilmente vendibili al pubblico italiano?
Da un lato è comprensibile temere il rischio economico, dall’altro è un peccato che ci si limiti a percorrere sempre la strada più sicura. Possibile che non esista un mecenate, un brand, un produttore disposto a rischiare e a dare al pubblico italiano l’occasione di vivere questo tipo di esperienza musicale? Oggi la scena elettronica offre tanti linguaggi, e non c’è nulla di sbagliato in un dj set costruito sul drop o sull’esplosione del brano. È un linguaggio che funziona e che emoziona a suo modo.
Il vero rammarico sta altrove: nel fatto che, in questo panorama, molti produttori di eventi e direttori artistici sembrano aver smesso di rischiare. Ci si muove sempre sulle stesse strade sicure, si programmano line-up che garantiscono presenze ma non lasciano spazio a territori differenti
È un peccato, perché il rischio di fallire un evento non dovrebbe tradursi nella rinuncia a proporre nuove visioni musicali. È possibile che tutto si riduca soltanto a una questione economica? Forse sì. Ma non bisogna dimenticare che la musica, prima di essere venduta, va ascoltata: va vissuta, consumata con l’ascolto. Ed è proprio questo ascolto che può formare, sorprendere, educare e far crescere una comunità musicale. Questo universo della progressive, enorme e in continua evoluzione, che parte da lontano e che tuttora vive e si espande, non può essere ignorato. È una risorsa incredibile, uno scenario sconfinato che l’Italia non può permettersi di non conoscere.
Se in Croazia, con festival come Balance, si è riusciti a proporre questa musica con successo, perché non potremmo fare lo stesso in Italia? Immaginare un Balance Festival italiano, con artisti di calibro internazionale che portino avanti questo linguaggio, ma anche, e soprattutto, ripartendo da quegli artisti italiani che dagli anni ’90 in poi hanno segnato la scena progressive nazionale, sarebbe non solo possibile ma necessario. Un modo per ridare dignità e spazio a chi ha fatto la storia, e che merita di essere ricordato, studiato e riportato alla luce.
Manuel D’Amario
