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Carl Craig è un luminare, un produttore, uno sperimentatore, un performer poliedrico, un pioniere della musica alla costante ricerca del suono che dura nel tempo. Ma anche un provocatore, che non si risparmia in autocritiche e critiche dirette, e un uomo che fa beneficenza.

Il 22 Maggio 1969 nasceva a Detroit un Artista. Potremmo finire l’articolo qui, perché questo è Carl Craig.

Ma iniziamo dal principio. Carl era un tipico adolescente americano cresciuto in una famiglia normale (madre aiutante, padre impiegato) a coca-cola e Public Enemy. Fino a quando, sul finire degli anni ’90, entrò nel Music Institute, un club che aveva la direzione artistica di Derrick May. Da qui l’incontro con la techno di Detroit che gli cambiò la vita.

Alla radio, a quei tempi, ascoltava spesso CharlesThe Electrifying Mojo’ Johnson, il quale passava Prince, Kraftwerk, new-wave, funk, hip hop, soul e tanto altro che influenzò molto sia la prima generazione (gli inventori Juan, Kevin e Derrick) che la seconda ondata di quel genere che prese il nome di techno (tra cui Jeff Mils, Hood e proprio Carl Craig).

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Questa sua passione lo portò ad incidere il suo primo EP “Crack Down” già nel 1989 proprio per la Transmat Records di May e subito dopo a fondare prima, la Retroactive Records, poi, a seguito di divergenze con il socio Damon Booker, a dare vita ad una propria label: la Planet E, il suo pianeta, il suo rifugio elettronico.

Questi anni d’esordio furono molto prolifici, lo stesso Craig afferma di come riusciva a comporre anche 3 o 4 tracce al giorno. Erano gli anni della fame, dell’urgenza di esprimersi, della spontaneità. Poi però, maturando, anche l’approccio alla musica cambiò. Molto più riflessivo, metodico, ma non smettendo mai di esplorare i limiti dell’elettronica, a volte superandoli. Come quando incise “Bug In The Bass Bin“, traccia seminale per il successivo sviluppo della Drum&Bass.

Tra i suoi mentori cita spesso Miles Davis, dal quale ha preso anche l’attitudine di rottura di regole predisposte, di suonare metaforicamente di spalle al pubblico come faceva il grande jazzista, e come ha fatto Carl durante quel set molto criticato alla Boiler Room al Polaris del 29 novembre scorso, per poi affermare che era volutamente assurdo a dimostrazione di come la club culture stesse perdendo la sua autenticità.

 

Quindi il jazz, Quincy Jones, ma anche il gospel con Al Green, celebre cantante di musica sacra, o Steve Wonder,che hanno raggiunto quel sound immortale, ancora Rakim, i Run DMC, per arrivare fino a soggetti che mai penseremmo come i Wu-Tang Clan o Alexander Robotnick (italodisco) e Todd Terry (house) roba che, insieme al synth-pop, ai Cybotron, sentiva alla radio di Mojo,  ed era talmente undreground a suo modo di vedere che, non sapendo come chiamarla, la definiva tutta indistintamente progressive.

La sua costante ricerca del suono atemporale, cioè la qualità di un brano di durare nel tempo, è testimoniata anche dalla miriade di alias con i quali ha pubblicato materiale, ognuno racconta una sua diversa sfumatura e sensibilità. Craig stesso crede che l’unica sua traccia che si avvicina a questa meta sia “At Les”.

Comunque il suo amore per la musica lo ha portato a percorrere diverse strade. Ha toccato la musica classica con il progetto Versus, poi il jazz, il funk, per non parlare di tutte le collaborazioni, le etichette (vedi anche Detroit Love) su cui è uscito ed i remix che ha pubblicato, una lista infinita. Infatti, è anche grazie a lui se questo formato ha acquisito valenza ed importanza visto che con il remix di Junior Boys “Like a Child” si è guadagnato una nomination al Grammy.

Dopo tutto questo però, il momento più brutto è stato quando ha preso coscienza di essere diventato mainstream. Durante un festival in Vietnam gli dissero che lui era sul palco principale, quello dei “commerciali”, e come lui tanti altri artisti che stimava e conosceva. Era passato dall’underground al pop senza neanche accorgersene. Ma ha avuto la lucidità ed il coraggio di ammetterlo, affermando che ormai non si va più ad un concerto, un festival o in un club per ascoltare un musicista, ma piuttosto per vedere un personaggio. Una critica diretta all’industria musicale, di cui egli stesso sa di far parte, che cerca di comprimere tutto in un format che appiatta, omologa il genere. Ma anche una critica nei confronti di un certo pubblico che non è più capace di esprimere un gusto ma segue semplicemente la moda.

Insomma Carl Craig è un personaggio che va oltre la musica, che prende posizione, come quando disse che c’era ancora differenza tra un artista ed un artista nero; irriverente, dice ciò che pensa (soprattutto sui social) e pensa ciò che dice con quella potenza, quel modo di fare da strada di Detroit. Talmente presente a se stesso da capire di essere finito tra i “commerciali”. Lui, un pioniere della techno, un innovatore musicale che è sempre stato per la controcultura e l’underground. In grado perfino di mettere in piedi un evento come il Detroit Electronic Music Festival (adesso Movement) per poi affermare di divertirsi semplicemente nel prendere in giro le persone sui social, autodefinendosi ironico ed arrogante un po’ per difesa e un po’ per scherzo.

Tutto questo e molto altro è l’eclettico Carl Craig.