“Layer One Remixes”rilegge l’universo post-umano immaginato da Ben Klock e Fadi Mohem. Quattro remix tra dub, techno, ambient e IDM firmati da Azu Tiwaline, Amotik, Quelza e Alarico, dove narrazione sonora e voce restano i veri protagonisti.

A novembre 2024 Ben Klock e Fadi Mohem hanno fatto uscire “Layer One”, un album collaborativo che li vedeva deviare dal tipico suono da dancefloor per esplorare territori più sperimentali, tra IDM, ambient e groove post-techno. In questo progetto spiccavano già le voci di MC grime Flowdan e l’artista interdisciplinare Coby Sey, i cui interventi vocali aggiungevano una dimensione umana a un concept futuristico. L’album è stato infatti concepito come un viaggio in un mondo post-umano, uno scenario in cui l’umanità si è quasi estinta e a sopravvivere sono solo le tracce digitali e quelle reliquie, che potremmo definire come “fossili” elettronici e immagini generate dall’AI, di una civiltà ormai scomparsa.

La visione che ne deriva non è tanto quella di un’apocalisse cupa, quanto piuttosto una visione quasi serena di un pianeta che continua a esistere e prosperare anche senza di noi. Un anno dopo quell’universo concettuale e musicale è stato riaperto e affidato ad altri esploratori (e produttori).

L’EP “Layer One Remixes”, è la naturale estensione del progetto originale. Ben Klock e Fadi Mohem hanno invitato cinque produttori tra cui Azu Tiwaline & Cinna Peyghamy, Amotik, Quelza e Alarico, per reinterpretare quattro brani di “Layer One”.

L’EP riprende quella stessa visione post-umana dell’originale attraverso altri sguardi e altri ascolti su quel mondo senza uomini, in cui le voci di Flowdan e Coby Sey continuano a risuonare come trasmissioni da un “relitto” futuro.

Il viaggio si apre con un rituale ipnotico. La producer tunisina Azu Tiwaline, insieme al percussionista franco-iraniano Cinna Peyghamy, rielabora Our Sector mettendo al centro Flowdan. L’attacco del pezzo è dominato proprio dalla voce parlata: ruvida, diretta, dal tono quasi industriale, scolpita da effetti digitali che la rendono granulosa. Pian piano, dal substrato emergono le pulsazioni di un dub rallentato, un basso profondo e frammentato. Un flusso percussivo che respira ed evolve continuamente.

Amotik lavora su Ultimately, traccia d’apertura di “Layer One”.Il remix ne rispetta l’essenza introspettiva ma la incanala verso l’energia del dancefloor.

Il produttore rimette al centro un battito in 4/4 e sin dai primi minuti si viene travolti da un groove circolare e ipnotico in cui la voce di Coby Sey appare in frammenti del suo spoken word che ri-emergono filtrati.

A riprova che il materiale di Layer One è ricco di possibilità, Our Sector compare sull’EP in una seconda versione ad opera di Quelza. La reinterpretation di Quelza, fin dall’introduzione, getta l’ascoltatore in un vortice di motivi acidi su un tappeto di pad cupi, disegnando un panorama sonoro teso e futuristico in cui la voce di Flowdan torna a manifestarsi intrecciandosi a suoni sintetici.

A chiudere l’EP troviamo l’unico brano dell’album originale Layer One che vedeva la collaborazione di Coby Sey senza la presenza di Flowdan: Clean Slate. Nella versione di Alarico, DJ e produttore milanese, il pezzo si trasfigura in una corsa oscura ed energica, dove restraint e release convivono in equilibrio precario. Rispetto all’originale, Alarico ne fa una costruzione di quasi sei minuti in cui la presenza vocale di Coby è ridotta a elementi brevi e ritmati.

“Layer One Remixes” è un progetto che si delinea come un esperimento curatoriale in cui Klock e Mohem affidano il loro universo sonoro ad altre voci creative, per vederlo evolvere ed espandersi. Ciascun produttore ha portato infatti la propria estetica e il proprio linguaggio, risultandone un lavoro coeso e allo stesso tempo multiforme.

Un’ operazione che pone anche interrogativi sul ruolo del remix oggi. In un panorama dove spesso il remix è una scorciatoia verso il dancefloor o una mossa di marketing, Klock e Mohem mostrano che un’alternativa c’è e che il remix può ancora essere un atto artistico e filosofico, capace di arricchire la narrazione di un album. Ogni traccia viene infatti rielaborata aggiungendo un tassello concettuale, un commento sonoro a quella visione post-umana immaginata inizialmente dai due produttori.Si

Si potrebbe forse anche leggere questo EP come una dichiarazione politica rivolta al futuro, in quanto nella scelta di coinvolgere producer provenienti da contesti geografici e culturali diversi (Africa, Medio Oriente, Europa) risuona un messaggio di apertura, in una scena techno spesso concentrata su se stessa. Inoltre, l’idea di un mondo in cui le macchine sopravvivono agli uomini viene riletta da sensibilità differenti, come a suggerire che anche il futuro, e il suono che lo rappresenta, non è uno ma molteplice, stratificato e complesso. Questi remix diventano così un nuovo layer, sovrapposto al precedente, che ne amplifica le risonanze e ne espande i significati, invitandoci a ballare col corpo e a riflettere con la mente.