Una nuova ricerca condotta dal collettivo Fair Play rivela che solo il 28% delle royalties generate nei club britannici raggiunge gli autori delle tracce effettivamente identificate nei DJ set.

Una nuova indagine firmata da Fair Play, collettivo indipendente con sede a Berlino impegnato a mappare la trasparenza economica nella club culture, ha rivelato una falla significativa nel sistema di distribuzione delle royalties britanniche. Ogni anno, più di 5,7 milioni di sterline verrebbero assegnate in modo scorretto, con ripercussioni pesanti soprattutto per i produttori elettronici, le etichette indipendenti e le scene musicali di nicchia.

Secondo il report, solo il 28% delle royalties raccolte nei locali del Regno Unito arriva agli autori delle tracce che i sistemi riescono a identificare come parte dei DJ set. Il restante 72% non può essere attribuito con precisione, perché la maggior parte dei club non trasmette setlist o playlist complete. In assenza di dati reali, le collecting britanniche, PRS for Music e PPL, distribuiscono queste somme basandosi su parametri generali: rotazioni radiofoniche, classifiche ufficiali, dati forniti da piattaforme come Spotify e Apple Music. Indicatori che riflettono il mercato mainstream, non ciò che accade realmente sui dancefloor.

Il problema affonda le sue radici nella struttura stessa del sistema. Decenni fa, quando la musica nei locali era suonata prevalentemente dal vivo, quindi da band, cantautori, gruppi che interpretavano perlopiù il proprio repertorio, il monitoraggio delle opere era relativamente semplice: l’artista compilava un modulo indicando i brani eseguiti, e la collecting li registrava. Con l’evoluzione della nightlife e l’affermazione dei DJ set, questo modello è diventato improvvisamente obsoleto. Un DJ può utilizzare centinaia di tracce per set: release autoprodotte, vinili rari, white label, brani pubblicati da piccole etichette o circolati in modo informale. Tutto ciò sfugge ai metodi tradizionali di rilevazione.

La situazione appare ancor più chiara se si osserva cosa succede quando la tecnologia viene utilizzata correttamente. Nei casi in cui i club adottano sistemi di music recognition o quando i DJ inviano setlist dettagliati, l’accuratezza nella ripartizione delle royalties supera il 90%. Ma la realtà quotidiana è ben diversa: meno del 7% dei club britannici utilizza strumenti di riconoscimento audio, e solo una piccola parte dei DJ invia playlist complete e aggiornate.

A complicare ulteriormente il quadro c’è un ostacolo molto concreto, spesso ignorato nel dibattito pubblico: la difficoltà tecnica nella compilazione delle setlist. Un problema che non riguarda soltanto il Regno Unito, ma gran parte delle collecting europee. Anche nel sistema italiano, la compilazione dei borderò, i moduli in cui i DJ dovrebbero dichiarare i brani suonati, è tutt’altro che intuitiva: per dichiarare correttamente un pezzo occorre individuare non solo il titolo, ma l’autore registrato, che spesso non coincide con il nome d’arte. Molte tracce della scena elettronica, soprattutto autoprodotte, underground o pubblicate da micro-label, se ricercate per alias o per titolo, non compaiono affatto. Altre risultano associate a informazioni incomplete o difficilmente rintracciabili.

Questa complessità genera una distorsione prevedibile e trasversale: molti DJ finiscono per inviare setlist parziali o precompilate, non perché manchi la volontà di dichiarare correttamente i brani, ma perché il sistema richiede un livello di precisione e un tempo difficilmente conciliabili con la realtà del lavoro quotidiano. È un comportamento diffuso, che si osserva tanto in Italia quanto nel Regno Unito e in altri Paesi europei, e che aiuta a comprendere perché le collecting, PRS e PPL nel caso britannico, si ritrovino spesso costrette a ricorrere a dati proxy come radio, streaming e classifiche mainstream.

In un contesto del genere, gran parte del repertorio della musica elettronica, house, techno, garage, drum’n’bass, grime, sperimentale, rimane sistematicamente ai margini della distribuzione economica. Le somme accumulate dai club finiscono per essere ripartite secondo il profilo del mercato dominante, favorendo generi e artisti che già presidiano radio e piattaforme di streaming. Non è possibile sapere a chi vada esattamente ogni quota, ma è evidente che il sistema non rispecchia la realtà dei DJ set.

Come osserva Ethan Holben, responsabile del progetto Fair Play:

«Quello che stiamo osservando è un disallineamento fondamentale: i DJ possono guadagnare molto suonando musica che non sostiene economicamente i suoi creatori.»

È un’asimmetria che non riguarda soltanto la redistribuzione economica, ma la tenuta stessa della cultura musicale. Quando il flusso di risorse non segue quello della creatività, l’ecosistema si indebolisce: i produttori emergenti faticano a sostenere il proprio lavoro, le etichette indipendenti vedono ridursi le possibilità di investimento, le scene locali perdono ossigeno.

La ricerca di Fair Play non punta il dito contro un singolo soggetto, ma invita a interrogarsi su un sistema che non riflette più la realtà musicale che dovrebbe tutelare. La soluzione non può essere solo tecnica, ma anche etica: promuovere la trasparenza, facilitare la compilazione delle setlist, adottare tecnologie di riconoscimento audio e aggiornare i criteri con cui vengono attribuite le royalties.

Perché la musica che muove i dancefloor nasce spesso lontano dai riflettori, in studi domestici e insonorizzati alla buona. E questa merita di essere riconosciuta, anche economicamente. Rendere giustizia a chi quei suoni li crea non è un tecnicismo: è un atto di cura verso la cultura stessa.